giovedì 24 settembre 2015
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Lei ha detto: «Se sono famoso, è grazie all’America», volendo alludere alla sua prima grande “retrospettiva”, al Museo d’Arte moderna di New York nel 1947. Come vede gli Stati Uniti?«Un critico del “New York Times” ha scritto che la mia visione dell’America era quella di uno straniero che guarda altri stranieri. “Gli piacciamo o no?”, si chiedeva. Il problema non è questo. È un fatto che ho trascorso cinque anni negli Stati Uniti, a partire dal 1947. Ho sempre rinvenuto laggiù un aspetto pionieristico, di mutua collaborazione, che confligge con tratti di spietata durezza. Vi ho conosciuto persone meravigliose nel proprio campo ma che, uscite da un ambito specializzato, scontano una certa fatica con le idee generali: il bene e il male, il nero e il bianco. Non hanno la sottigliezza cavillosa dei napoletani. Ma non stavo là a scattare foto per spiegare questo. Ho passato quindici giorni nell’ufficio di Robert Kennedy, quand’era segretario alla Giustizia. Mi chiedeva: “Ce l’ha la sua tazza di tè, il suo whisky?”. Ho captato in quella stanza dialoghi che erano ben lungi dall’essermi destinati. È una questione di fiducia. Ho anche fotografato, per “Life”, il Parlamento di Lincoln, Nebraska, i cui membri passavano il loro tempo a perfezionare un regolamento per il gioco del lotto. Ed erano sempre lì a domandarmi: “Come va francesino? Lo prendi un gelato?”. Difficile fare un libro su un paese così pieno di contraddizioni.Nella “sua” America, non c’è un’intenzione critica?«Non ho mai messo il mio lavoro al servizio di un’idea, di un partito, e provo repulsione per i componimenti a tesi, con dentro un messaggio. Voler “pensare” qualche cosa: no, no e no. A ogni modo le foto non spiegano niente, non provano niente».Da una ventina d’anni circa, lei si è consacrato al disegno. Perché smettere con la fotografia?«Il bisogno di rimettersi in discussione. E, a maggior ragione, quando sei famoso. Il pericolo del potere. Avevo detto quello che dovevo dire. Tériade l’aveva capito: “Abbandona la foto, non puoi che rotolare indietro”. Anche Saul Steinberg mi scrisse, dopo la mia prima mostra al museo d’Arte moderna di Parigi: “Mi accorgo che per te la fotografia è stata un richiamo, una ginnastica, e un alibi per il tuo smaneggio vero, il disegno”».Molti hanno interpretato il suo passaggio al disegno come una rottura. Lei ci vede una cristallina continuità. Come lo spiega?«Per me, che si adoperi la macchina fotografica o il gessetto poco importa: è la stessa cosa, perché solo lo sguardo è importante. A cambiare non sono che gli strumenti. La foto è uno strumento dello sguardo che afferra meravigliosamente l’intuizione del momento, mentre il disegno è più una meditazione, una grafologia. Per caso si rimprovera a un pittore di fare della scultura? La fotografia non è dunque, per me, che un mezzo per disegnare. Più oltre non si spinge. Jean Clair l’ha messo in chiaro benissimo nella sua prefazione al mio libro di disegni Trait pour trait. Il mio disegno parte dalla natura: paesaggi, nudi, nature morte. La natura è talmente ricca, a paragone di qualunque cosa uno possa immaginare. C’è tra la foto e il disegno una continuità assoluta. Io disegno ogni giorno, nel pomeriggio, finché c’è luce. Esiste una grande tradizione di fotografi-disegnatori. Boiffard era fotografo, pittore e surrealista. Izis, che pittore! Bischof era un superbo disegnatore».Come giudica l’arte contemporanea?«C’è di tutto, cose meravigliose come anche un nuovo accademismo, nuovi pompiers. Talvolta la forma e l’emozione si vedono rimpiazzate dalla trovata d’ingegno e dal mercato. Tengo in alta opinione Duchamp e la sua piroetta: “L’arte è morta”. Era un uomo intelligente, sottile, bizzarro, capace di non prendersi sul serio. Non so quanto si riconoscerebbe nella mediazione di certi suoi figli spirituali. Mi sono sempre tenuto fedele all’etica del surrealismo (Nadja, L’amour fou), meno alla sua estetica, la quale molto spesso in pittura non è che la risoluzione di un aneddoto letterario. Breton per esempio, l’ultima volta che stavo a pranzo di fronte a lui, con un gran gesto mi dice: “A lei piace Cézanne? Questo signore che non ha osato esprimersi se non attraverso le sue bagnanti, aveva bisogno di corpi femminili”. Sempre questo punto di vista moraleggiante. Lasciamo perdere. Ma in seguito mi ha rovesciato addosso peste e corna sul conto di Alberto Giacometti. A quel punto, era finita. Alberto era il mio punto di riferimento intellettuale».Lei conosce la rampogna degli addetti ai lavori: il più celebre fotografo del mondo ci volta le spalle abbandonando la fotografia. Ci pianta in asso!«Quando mi sono messo a disegnare, la cosa ha traumatizzato certi fotografi, come se mi mettessi a sputare nel piatto in cui avevo mangiato. È un problema che non mi riguarda. Al tempo in cui ero fotografo, una certa tranquillità me la lasciavano. Ora che ho smesso, perché continuare a sottopormi domande sulla fotografia? A interessarmi è la vita. Disegnare, ricercare, vedere. Altrimenti, l’unica cosa che rimane è la tomba».Però è vero che in passato lei ha preso posizione in difesa dello status di fotografo...«Senza dubbio. Quando arrivi a essere famoso, è tempo di restituire qualcosa in cambio. È per questo che avevo accettato di diventare presidente dell’Associazione dei fotografi. Oggi è sempre più difficile fotografare in strada all’aperto, perché chiunque si dice “proprietario della propria immagine”. La faccenda è preoccupante. Senza un avvocato a fare tutt’uno con la tua Leica, puoi andare incontro a un bel numero di processi in nome del rispetto della vita privata. Questo senso della proprietà è aberrante! Ed è forse il motivo per il quale così tanti fotografi si indirizzano verso la fotografia concettuale...Che a lei non piace...«La cosa che mi preme, è la realtà. La quale è sempre un punto interrogativo: di che cosa si tratta, che cos’è?».Fotografie ne fa ancora?Ho una macchina sempre con me. La uso di rado perché non mi viene di concentrarmi. Il segreto è la concentrazione. Con il reportage è un capitolo chiuso, ma fotografo paesaggi di tanto in tanto, per il mio piacere. Un grande appagamento lo avverto soprattutto nel fare un ritratto. È la cosa più difficile perché è un duello senza regole, una sottile violenza. Un ritratto è come una visita di cortesia di quindici o venti minuti. Non puoi molestare le persone a lungo come una zanzara che ti dà il tormento. Io vado in cerca eminentemente di un silenzio interiore, in grado di tradurre la personalità e non un gesto. Insieme, nel contempo, occorre la geometria».
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