venerdì 21 aprile 2023
Una grande mostra retrospettiva sul pittore che costruì vari cicli narrativi delle storie che univano fede e poteri della città contro la minaccia turca Venezia
Vittore Carpaccio, “Caccia in valle”, circa 1492-1494 (particolare)

Vittore Carpaccio, “Caccia in valle”, circa 1492-1494 (particolare) - Los Angeles, J. Paul Getty Museum

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È più famoso nel mondo come piatto di carne cruda servito freddo, che per la pittura. Eppure, è dal colore che domina l’opera del celebre artista che venne l’associazione. Per cui è fin troppo facile la battuta sul Carpaccio, ma “quanno ce vo’ ce vo’”, direbbero a Roma. Forse da grandi studiosi e organizzatori di mostre ci si potrebbe aspettare che fuggano simili tentazioni, ma la buongustaia Gabriella Belli, intendo per il menù dell’arte, e Kaywin Feldman, direttori della Fondazione Musei Civici di Venezia e della National Gallery di Washington, dove la mostra del Carpaccio è stata in prima battuta fino allo scorso febbraio, per poi approdare ora nell’Appartamento del doge a Palazzo Ducale (fino al 18 giugno), non si contentano di evocare quell’accostamento “master chef” e si dilungano sulle origini della gustosa pietanza: «Carne di manzo o di vitello cruda, tagliata molto sottile, servita con limone, olio d’oliva e parmigiano. Il famoso piatto è stato battezzato in onore del pittore, presumibilmente perché ha ricordato al suo inventore, Giuseppe Cipriani dell’Harry’s Bar di Venezia, i caratteristici rossi dei suoi teleri». Ho qualche dubbio sul limone e il parmigiano, del resto nel 1978 lo stesso Cipriani metteva in chiaro: «Se voi sfilettate della carne cruda, naturalmente freschissima e tagliata in fettine leggere come fosse un prosciutto, eccovi (con l’aggiunta di un tantino di salsa) il carpaccio. Con il carpaccio gli imbrogli sono proibiti. Il suo segreto è nell’essere interamente svelato, nudo come mamma l’ha fatto».

E per non dimenticare proprio nulla nelle circostanze elettive, i due direttori aggiungono: «Si ritiene che la moderna creazione culinaria risalga al 1963, anno della prima grande mostra monografica sull’artista, tenutasi a Palazzo Ducale, quando tutta Venezia era in preda alla “Carpacciomania”». Non ci si poteva esimere dal sorridere un po’ su questa volontà essoterica di spiegare il mito, per poi constatare tristemente che il mito della carne è ben più frequentato di quello pittorico di Carpaccio. E visto che siamo in tema di Cracchi e Cannavacciuoli dell’arte, bisogna altresì dire che se da un lato il piatto rende bene, purché la carne sia freschissima e non decongelata, il pittore invece è stato lasciato per lunghi periodi, anche dopo il 1963, a stazionare nel congelatore degli specialisti dal quale ogni tanto viene riesumato per mostrare, sotto la brina di freezer, la freschezza del suo genio la cui definizione più precisa è ancora quella che ne diede uno dei suoi più incantati sostenitori: John Ruskin, il quale nel saggio su Venezia parlò di “specchio magico”. Ora il grande inglese intendeva per magia l’abilità nel riflettere «istantaneamente qualunque ordine di bellezza - osservando di seguito - ma rifletterà spesso, altrettanto fedelmente, le cose più comuni». Se il senso, per noi, potesse essere quello stesso sentimento arcano che dettò a Ripellino Praga magica, leggendo Ruskin ritroveremo, senza esserne preavvertiti, Venezia magica e in Carpaccio il suo alchimista. Pittore quanto mai simbolico e, al tempo stesso, di una verità realista più che trasparente, Carpaccio è una specie di paradosso che tiene insieme “luce e mistero”.

I colori della Laguna sono la sua stessa metamorfosi. Lo si comprende meglio nei teleri dei grandi cicli narrativi, perché lì emerge con sottile e accurato controllo delle ragioni rappresentative dell’epoca, la sapiente architettura di simboli e rimandi alla fondamentale sfida fra cristianesimo e mondo orientale riconducibile alle guerre turche e alla loro minaccia religiosa; mentre in altre opere, vedi il tardo Salvator Mundi di collezione privata, che precede di poco la pressoché identica versione di New Orleans, l’elemento per così dire esoterico esplode in dettagli quasi miniaturizzati, come il piccolo globo di vetro dal diametro di non più di due centimetri su cui si riflettono le forme dell’orbe terracqueo, sfera che il Cristo sta come liberando nello spazio dalla sua mano sinistra aperta, rispetto al quale la magia dello specchio evocata da Ruskin ne fa un Salvatore quasi sciamanico. La mostra, dotata di un ottimo catalogo Marsilio, è curata da Peter Humfrey e da un gruppo di specialisti che hanno collaborato nel dirimere i vari nodi tuttora dibattuti. A cominciare sulle date di nascita e di morte, ancora ballerine. Più che didascalica nel sottotitolo, “Dipinti e disegni”, è proprio in questi ultimi che si pone forse il maggior godimento di una mostra pensata per gli amanti del pittore: molti dei fogli esposti vengono da Inghilterra e America, e ci rivelano un pittore abilissimo nel gestire con pochi tocchi effetti di ombre e di ambientazione spaziale su fondi generalmente chiari uniformi; per non dire della qualità architettonica degli spazi, come nel disegno per il telero del Sogno di Orsola proveniente dagli Uffizi.

Ma anche gli studi di figure, sulla carta azzurra, con matita nera e biacca, offrono una idea quasi contrastante del modo di pensare dell'artista, qui con una volumetria plastica se non già scultorea, laddove nelle scene d’ambiente la leggerezza del segno svuota di materia l’immagine rendendola una rappresentazione dell'impalpabile. Il pittore cerca la sua misura, dopo aver guardato ad Antonello, e essere andato a scuola dai Bellini: Giovanni – al quale rimanda la prima opera della mostra, la Madonna col Bambino, da cui assimila le tecniche pittoriche – e Gentile da cui, invece, apprese la poetica delle narrazioni. Cicli come quelli di sant’Orsola e di san Giorgio, o come quello degli Albanesi, oggi sparso fra Bergamo, Milano e Venezia, misurano, nel loro dipanarsi attorno al primo decennio del Cinquecento, una progressiva messa a fuoco dello sguardo che – procedendo verso una chiarezza di costruzione dell’architettura e vertendo su un colore che dai rossi, ai gialli e ai verdi e nella complessa disposizione formale di simboli secondari –, offre la significazione apologetica del cristianesimo dell’epoca.

Una visione che si purifica lentamente dalle inquietudini cromatiche e tonali fino a ritrovare la limpidezza aurea di Giovanni Bellini, col quale, dopo la morte di Alvise Vivarini, Vittore lavorò al ciclo in Palazzo Ducale perduto nell’incendio del 1577, e la “trasparenza” di Cima da Conegliano, lasciando emergere la luminosità cristallina e al tempo stesso surreale della costruzione interna diacronica. Vale quel che già nel 1966 notava Pietro Zampetti, ovvero che «l’evento religioso finisce con il sembrare un pretesto; o forse meglio con il passare inosservato fra tante e tante occasioni di vita». Il moltiplicarsi delle scene agli Schiavoni nel ciclo di San Giorgio, dove figure, architetture, paesaggi, animali, cose, cieli e nuvole formano un mondo di dettagli significativi (con una inclinazione fiamminga): nell'insieme una “vera historia” come doveva apparire ai veneziani dell’epoca che ne riconoscevano le realtà, ma ne afferravano anche l’invenzione. Patricia Fortini Brown già nel 1988 aveva ben riassunto in tre momenti il senso che Carpaccio sembra dare alla sua pittura: rendere le scene di vita così come accadono; usare gli eventi religiosi come occasioni per raffigurare la vita secolare; infine, creare una pittura narrativa che resta sospesa rispetto al suo primo scopo: raccontare una storia. Si tratta di una pittura arcana, che parla d’altro? Il Giovane cavaliere del Museo Thyssen di Madrid – che scoperte recenti farebbero pensare possa trattarsi di Francesco Barbaro il Giovane morto nella guerra di Cambrai, il quale aveva adottato come emblema l’ermellino che figura in basso a sinistra nel quadro –, è l’immagine del vero “miles christianus”, un eroe della fede: in cielo falchi cacciano altri uccelli, i giglio è assediato dai rovi, il “cagnasso” latra sotto l’albero rinsecchito e la massima del cartiglio dice: preferisco perire piuttosto che macchiarmi.

Un’opera perfetta che fa pensare a una volontà empatica del pittore. Di concezione sempre più rarefatta, con orizzonti dove architettura e prospettiva aperta si impongono, è il ciclo per Santo Stefano di cui in mostra sono presenti gran parte degli studi preparatori, tra i quali il bellissimo foglio bifronte a matita rossa per la Predica che viene da Washington, e lo straordinario Giudizio a matita, penna e inchiostro degli Uffizi. L’ultimo decennio di vita Carpaccio lo vive subendo le more del nuovo verbo giorgionesco e tizianesco. Una delle imprese impegnative attorno al 1515 è il laborioso altare con la Crocefissione e apoteosi dei diecimila martiri dell’Ararat, una sequenza quasi zigzagante di eventi, con soldati romani e musulmani contrapposti, i martiri che rifiutano obbedienza all’imperatore nella venerazione dei falsi dèi, le analogie con i segni della Passione: tutto fa di quest’opera stipata una sorta di sintesi della ricerca condotta da Carpaccio per una vita intera. Il pittore, come aveva ben riassunto Patricia Fortini Brown, «volge lo sguardo sia in avanti che indietro, non crea soltanto memoria storica ma produce anche copioni per azioni future». E la sua pittura ha un non-so-che di visionario e sospeso all’apparente silenzio delle sue storie veneziane.

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