mercoledì 24 maggio 2017
Il filosofo sloveno nell’ultimo libro parla di coraggio della non speranza per contrastare le negatività del consumismo. La fede ci dice che il futuro già esiste nella vita eterna
Il filosofo sloveno Slavoj Žižek

Il filosofo sloveno Slavoj Žižek

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Spe salvi facti sumus, nella speranza siamo stati salvati. Oggi però si vorrebbe smorzare l’annuncio della Lettera ai Romani. E sembra si voglia farlo per vincere facile. Perché oggi fatichiamo a lanciare il cuore oltre le difficoltà e bersagliare la speranza diventa agevole. Oggi ci sentiamo sempre più preda di meccanismi fuori dalla nostra portata. Il futuro sembra svanire davanti ai nostri occhi costringendoci ad acciambellarci in un interminabile presente. E c’è chi, sempre oggi, cavalca la crisi di speranza. Anzi non manca chi, questa situazione disperante, la teorizza ritenendola una via di uscita dal sistema capitalistico. Addirittura la innalza a via per emanciparsi dai diktat del mercato. Peccato che l’assenza di speranza è proprio il fulcro di un sistema che riduce la vita a consumo. All’hic et nunc. Oggi, esortare alla non speranza significa alimentare quel sistema che si intende criticare. E Il coraggio della non speranza è il titolo del nuovo libro, appena uscito in Inghilterra, del filosofo sloveno Slavoj Žižek: The Courage of hopelessness (Allen Lane, pagine 336, euro 17,10).

«Il vero coraggio non sta nell’immaginare un’alternativa – scrive – ma nell’accettare le conseguenze del fatto che non sono chiaramente individuabili alternative: il sogno di un’alternativa è sintomo di codardia teoretica, agisce come un feticcio che ci impedisce di pensare la fine dello stallo della nostra difficile situazione». Anzi «l’autentico coraggio – prosegue – consiste nell’ammettere che la luce alla fine del tunnel non è altro che il faro di un treno che sta procedendo verso di noi». Dunque che fare?, potremmo chiederci, ammiccando a Lenin, oggetto, qualche anno fa, di una monografia di Žižek. Stando al pensatore di Lubiana dovremmo assimilare la strategia adottata dallo psicoterapeuta del protagonista di La coscienza di Zeno. L’alter ego di Italo Svevo combatte contro la dipendenza dal fumo. Ogni sigaretta che accende dovrebbe essere l’ultima. E questo carica fin troppo di responsabilità la sua azione al punto da renderlo inerte e recidivo. Occorre pertanto permettergli di fumare quanto vuole, almeno finché la salute lo sostiene. Solo così potrebbe decidersi di abbandonare il vizio. Forse la psicoanalisi vale per il singolo, e in un orizzonte terreno, ma vale anche per gli uomini che vivono in società? Privarli della speranza, e quindi della vocazione al futuro, significa dare loro la possibilità di salvarsi come pensa Žižek? Benedetto XVI, nell’enciclica che prende il titolo dal versetto paolino evocato all’inizio, riconosce che grazie alla speranza «possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino». E per di più essa non riguarda il singolo. Henri de Lubac, «sulla base della teologia dei Padri in tutta la sua vastità – ricorda Benedetto XVI –, ha potuto mostrare che la salvezza è stata sempre considerata come una realtà comunitaria. La stessa Lettera agli Ebrei parla di una 'città' e quindi di una salvezza comunitaria». Questo non significa, naturalmente, scalfire la portata soteriologica della speranza perché «questa visione della 'vita beata' orientata verso la comunità ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con l’edificazione del mondo, in forme molto diverse, secondo il contesto storico e le possibilità da esso offerte o escluse». Pertanto, quando i tempi sembrano bui e dominano «le passioni tristi», per dirla con il filosofo argentino Miguel Benasayag, non serve abbandonarsi alla non speranza, come vorrebbe Slavoj Žižek, ma rifrequentare i «luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza» invocati nella Spe salvi: la preghiera, l’agire, il soffrire e il Giudizio. E l’agire «è speranza in atto. Lo è innanzitutto nel senso che cerchiamo così di portare avanti le nostre speranze, più piccole o più grandi». Occorre sapere, che in qualsiasi momento, ricorda Benedetto XVI «io posso sempre ancora sperare, anche se apparentemente non ho più niente da sperare». Solo così diventa possibile attirare «dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non sia più il puro 'non-ancora'. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future». Con buona pace dei corifei della non speranza.

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