giovedì 27 marzo 2014
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Proponiamo in queste colonne ampi stralci del capitolo introduttivo del volume “L’intervento pubblico nell’Italia repubblicana. Interpreti, culture politiche e scelte economiche”, l’ultimo numero monografico di “Storia economica” curato da Francesco  Dandolo e Filippo Sbrana. Il libro è stato presentato a Roma, presso la Fondazione Basso in via della Dogana vecchia, 5. Interverranno Paola Casavola del dipartimento per lo Sviluppo e la coesione economica, Giuseppe De Rita, presidente del Censis, Agostino Giovagnoli dell’Università Cattolica di Milano e Gaetano Sabatini dell’Università Roma Tre. Modererà Giancarlo Monina della Fondazione Basso – Università Roma Tre; saranno presenti i curatori.L'azione dello Stato ha avuto un ruolo rilevante nello sviluppo economico italiano, sin dall’unificazione. Obiettivi e strumenti sono cambiati con l’avvicendarsi di congiunture economiche e fasi politiche, ma la centralità della mano pubblica è sempre stata indiscutibile, tanto che la storiografia ha parlato di “precoce capitalismo di Stato” e di Stato come “imprenditore politico”. Si tratta di una caratteristica distintiva e di lungo periodo della storia economica italiana, che trova conferma nelle numerose connessioni fra l’intervento pubblico nella stagione che precede il secondo conflitto mondiale e in quella che lo segue. I legami sono rappresentati sia da enti sia da uomini, le cui vicende risultarono strettamente collegate: basti pensare al ruolo strategico dell’Iri.Fin dall’avvio della ricostruzione, in Italia si pensò e si agì nella prospettiva di un’economia mista. Tale orientamento rispondeva a esigenze immediate e inderogabili quali il rifacimento e la riconversione dell’apparato produttivo, ma si faceva anche carico dell’obiettivo di più ampio respiro di colmare il notevole ritardo che il Paese accusava in rapporto alle economie industriali più avanzate. L’Italia, infatti, sia per occupazione, sia per prodotto, evidenziava percentuali di gran lunga inferiori rispetto alle principali nazioni europee e l’apparato produttivo più moderno si concentrava in una ristretta area del Paese, il «triangolo industriale» compreso fra Milano, Torino e Genova. Le vicende belliche avevano contribuito ad accentuare gli squilibri tra l’area nord-occidentale e quella meridionale della penisola, a causa dei danni di guerra più rilevanti subiti dalle industrie del Mezzogiorno e al contemporaneo aumento della popolazione di quella zona.L’arretratezza del Paese e l’aggravamento dei divari regionali furono all’origine della strategia organica che la nuova classe dirigente provò ad attuare – dopo aver risolto i dubbi sull’eredità del fascismo in ambito economico – volta a dare risposte alle drammatiche devastazioni causate dalla guerra e a rilanciare lo sviluppo economico. In questa prospettiva, si sviluppava il processo di integrazione europea volto a favorire la cooperazione politica ed economica, di cui l’Italia di Alcide De Gasperi era tra i più decisi sostenitori. Nel compiere tali scelte, scaturì un disegno di ampio respiro che, in sintonia con le teorie keynesiane, individuò nella spesa pubblica volta agli investimenti industriali lo strumento privilegiato per modernizzare la struttura produttiva del Paese, operazione che richiedeva peraltro tempi rapidi in vista del progressivo abbattimento delle protezioni commerciali alzate dal fascismo.Non vi era, né poteva essere altrimenti, unanimità di idee e di strategie nei modi di concepire e realizzare l’intervento pubblico nella realtà produttiva italiana. La questione era tutt’altro che di poco conto: si trattava infatti di scegliere quale modello di industrializzazione adottare e in che misura incrementare o smobilitare l’intervento diretto dello Stato nel processo produttivo nazionale [...]. Nel mutato clima politico del dopoguerra gli interpreti furono numerosi e portarono avanti la loro azione mediante una molteplicità di approcci e orientamenti, sulla base dell’esperienza maturata tra gli anni Trenta e Quaranta. Nelle diversità di vedute si riflettevano le varie culture di appartenenza, riconducibili ai valori della tradizione liberale, cattolica, nittiana, comunista, oltre che ai condizionamenti che provenivano dal versante internazionale. Il modello che prevalse fu un compromesso fra idee e interessi, con diversi elementi di continuità rispetto agli anni Trenta, grazie al quale molte risorse finanziarie furono affidate a enti di natura pubblicistica per completare l’industrializzazione del Paese, evitando statalismo e iperliberismo. Quello del compromesso – che Fabrizio Barca ha definito straordinario, ponendo in rilievo anche i suoi limiti – è un paradigma in cui si colgono alcune tendenze di fondo, con l’interazione di varie componenti culturali e interessi economici. In una prima fase i liberali assolsero al delicato compito del governo dell’economia, ma nel volgere di qualche anno emerse un dinamico nucleo espressione del mondo cattolico, che già nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente era risultato determinato nel perseguire un chiaro obiettivo: imprimere un’esplicita concezione valoriale al nuovo Stato che si andava edificando, in una prospettiva tollerante e interclassista, particolarmente attenta alla piena occupazione. Per parte loro gli uomini impregnati della cultura nittiana e beneduciana ebbero un ruolo preminente, condizionando per lungo tempo le strategie degli enti pubblici, con una peculiare attenzione alle politiche di riequilibrio e di espansione territoriale della struttura produttiva del Paese, evidenziata già nel 1946 dalla nascita della Svimez (nella quale vennero peraltro a convergere anche apporti di matrice cattolica e socialista). Più modesto fu il ruolo esercitato dalla cultura comunista, fortemente presente a livello di dibattito ma confinata in una condizione di marginalità, per la difficoltà nel formulare proposte idonee alla struttura produttiva di una nazione ormai collocata nell’Occidente capitalistico e l’impossibilità ad accedere ai ruoli strategici dell’economia pubblica. Altro elemento di cui tenere conto è il condizionamento degli Stati Uniti: insieme agli aiuti del piano Marshall venne la richiesta di superare una politica di solo rigore finanziario e favorire politiche per il rilancio dell’economia, mentre si andava diffondendo nella cultura e nella società italiana il mito americano.
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