La regina Vittoria li portava raccolti in una crocchia che inconfondibilmente le conferiva un’aria austera e severa. L’imperatrice Sissi, che i capelli li adorava intrecciati o sciolti, ne aveva un cura maniacale: vi dedicava tre ore al giorno e non c’è da stupirsene visto che erano una massa di oltre cinque chili che le arrivava alle caviglie. Per Sansone la lunga chioma raccolta in sette trecce fu un segno del destino, il centro vitale di quella misteriosa forza sovrumana con cui doveva liberare Israele dai Filistei. Fu invece una condanna sociale senza remissione l’obbligo per le prostitute francesi del 1200 di tingersi i capelli di rosso, un marchio di inequivocabile vergogna a tutela delle donne per bene alle quali si addiceva piuttosto il biondo, sinonimo di bellezza e spesso santità. Del resto i rossi non hanno mai avuto buona fama, a cominciare dalla ribelle Lilith della tradizione ebraica, che l’iconografia ha perpetuato con lunghi capelli ramati e disordinati. Con le loro zazzere scomposte i ragazzi del ’68 misero in atto una contestazione serrata contro la guerra del Vietnam, ma contemporaneamente in Gran Bretagna era la testa rasata la bandiera della ribellione urbana degli skinheads. Si capisce bene che qui non siamo nel semplice comparto dell’effimero. La storia sociale dei capelli, unita a quella di barbe e baffi, è un territorio vasto, tortuoso e contraddittorio che ha a che fare con la volubilità delle mode, la complessità dei comportamenti, l’essere e l’apparire. E in cui impera la metafora. Dunque un campo di studio sterminato che non può prescindere dal ruolo che nel tempo hanno avuto parrucche e chiome selvagge, creste, codini, spazzole, rasta, caschetti, boccoli e affini. Impossibile darsi confini, le tappe forzate toccano il sacro e il profano, le teste rasate dei prigionieri ebrei nei campi di sterminio e insieme le fiabe come Raperonzolo, Riccioli d’oro o Melisenda che raccontano di sterminate trecce color dell’oro o di chiome che crescono a dismisura e senza fine. I ciuffi alla James Dean o alla Fonzie, le cuffiette adottate dalle donne Amish, il biondo platino di Marilyn Monroe, le ciocche ribelli come un riccio di castagna di Emily Dickinson o la chioma fluente di Giovanni Battista. E tanto altro ancora: un orizzonte su cui ha spaziato la ricerca di Marilena Menicucci, giornalista e scrittrice, intitolata Presi per i capelli . La passione per la chioma tra arte, costume e società (Gallucci Editore, pagine 236, euro 15) alla scoperta di simboli e significati legati ai capelli che dall’estetica scivolano nell’etica e nell’inconscio e conducono nei meandri dell’identità. «Riflettere sui capelli – racconta – è come meditare sull’umanità che ne è portatrice. La capigliatura è uno dei dati che più ci rappresenta, un indicatore visibile di realtà altrimenti invisibili. I capelli sono una carta d’identità personale e sociale, svelano la nostra età, tanto che gran parte delle donne, le ricerche lo confermano, teme maggiormente la caduta dei capelli che la comparsa delle rughe. Ma sono anche una spia dello stato d’animo in cui ci troviamo, del carattere, e delle paure che ci tormentano. Perciò dedichiamo loro cure e attenzioni particolari, maggiori, dicono sempre le indagini, di quelle che riserviamo alla forma fisica. La cura con cui li trattiamo è tra i gesti che ci rendono umani. Del resto è la cultura che ha prodotto le acconciature». Addentrandosi nella ricerca Marilena Menicucci si è resa conto di quanti libri, poesie, film, canzoni, romanzi, quadri o affreschi contengano una citazione, un’allusione, una scena o un particolare che abbia a che fare con i capelli. «Prendiamo il Vangelo di Matteo, non è forse la misura dell’amore di Dio l’affermazione che perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati? È chiaro anche l’episodio, riportato da tre evangelisti, della donna di Betania che sei giorni prima di Pasqua, intuendo la solitudine di Gesù e la sua tristezza dopo avergli versato sui piedi un olio prezioso, li asciuga con i suoi capelli. È il gesto della generosità accompagnato a quello della cura e dell’attenzione, grazie al quale Gesù non si sentirà più solo». Accanto alle equazioni capelli uguale forza, seduzione, denuncia, protesta, trasgressione, ribellione e autoaffermazione sta il tema del cambiamento, del passaggio sancito da un mutamento radicale di acconciatura, un taglio, a cui il cinema ha attinto a piene mani. «Spinta dalla frenesia di una giornata da persona normale, Audrey Hepburn alias principessa Anna del famosissimo Vacanze romane, s’infila proprio nel negozio di un parrucchiere, uscendone come un’altra persona, con un taglio corto e sbarazzino segno della propria ribellione a una vita regale monotona e ingessata. Lo stesso succede alla Sabrina del film di Billy Wilder, la giovane figlia dell’autista (ancora Audrey Hepburn) che torna in America da un lungo soggiorno in Europa con un bel taglio corto, che è il suo approdo all’età adulta. Anche la trasformazione del regno di Pu Yi in L’Ultimo Imperatore di Bertolucci è segnata da un gesto semplice e scan- daloso come il taglio della lunga treccia, simbolo di una tradizione millenaria». Cambio di passo o di vita, il bello è che le metamorfosi si progettano e si attuano in quello spazio di libertà che è il negozio del parrucchiere in cui s’intrecciano voci, storie e corpi. E dove le mani tra i capelli operano strabilianti trasformazioni. «Un luogo di comunicazione, in cui nessuno – racconta Marilena Menicucci – viene lasciato solo con il suo problema. Le sequenze di Gran Torino in cui il vecchio Clint Eastwood accompagna il ragazzo cinese a tagliarsi i capelli sono il compendio di un’intera educazione sentimentale ». Come tacere infine l’orgoglio del grigio e del bianco che avanza, lasciando alle spalle il dovere delle tinture? «La scelta dei capelli bianchi è un indicatore della nuova forza delle donne – conclude Menicucci – oggi più tranquille sulla propria età e sull’invecchiamento. Sempre più distanti dalle richieste di rimanere giovani a oltranza nonostante il tempo che passa e la natura che segue il suo corso».