domenica 8 marzo 2009
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Una mattina di maggio 1967 a Voghera, Fabrizio, allora ragazzino, sale in sella alla sua bicicletta e corre come un Gimondi fino alla Piazza del Duomo per la festa dell’Ascensione. Ha il cuore che gli batte a mille, perché in piazza «di fronte alla drogheria Leardi», come ogni anno, sono tornati i cantastorie. Oggi Fabrizio Poggi è un apprezzato bluesman, ma le figure mitiche dei cantastorie, con le loro apparizioni felliniane nelle fiere e le sagre di paese, non l’hanno più abbandonato. Fabrizio si è rimesso sulle tracce degli ultimi epigoni di questa straordinaria arte popolare, quelli che originalmente erano conosciuti come i Turututela, così detti dal suono onomatopeico del ghitarèn, chitarra artigianale a una corda sola con cui si accompagnavano. «Per un po’ ho cercato di emulare quegli spettacoli, ma è diventato troppo difficile – spiega Poggi –. La tv e poi internet hanno cancellato la sacralità dell’evento di piazza. Di conseguenza i cantastorie sono diventati mosche bianche». Solo la memoria è ancora salva e consente di raccontare personaggi incredibili e dirompenti, a cominciare da quei fantastici «trovatori del pavese». Le ultime grandi famiglie dei cantastorie come i Cavallini, i Callegari e i Ferrari (molto apprezzati da Soldati e Zavattini). Artisti di piazza certo, che portavano la musica nei mercati, ma che soprattutto informavano il popolo e in qualche maniera rendevano un po’ più colto un Paese che dopo la guerra era ancora semi-analfabeta. GIORNALISMO «ON THE ROAD» NELLO STRAPAESE Il cantastorie, più che il padre dei moderni cantautori, è stato il primo esempio di giornalismo on the road, sulle strade sterrate dello Strapaese. Agostino Callegari, detto il «Gusto di Pavia», addirittura si muoveva come un Gianni Brera al seguito del Giro d’Italia. Sulle spalle ingobbite dal peso della fisarmonica Dallapè faceva tappa ad ogni arrivo, intonando inni al suo idolo Girardengo e vendendo i fogli volanti in cui erano trascritti i testi delle canzoni. «La sua valigia, al mattino piena di carta, la sera era gonfia di monete». E in una sola giornata del lontano e assai critico 1929, a Cremona, Agostino Callegari portava a casa la bellezza di mille lire. E quella cifra da sogno i cantastorie, battendo palmo a palmo la provincia dal Piemonte alla Sicilia, potevano davvero racimolarla in un giorno passato a fare treppo: da sempre il nome del loro spettacolo. «La prima forma di performance interattiva – continua Poggi –, perché il treppo non poteva riuscire senza la partecipazione diretta e sentita del pubblico». Tra la folla si aggirava furtivo il saraffo, lo spettatore compiacente, la claque che scaldava il pubblico e che rispondeva al minimo cenno del cantastorie. La difficoltà maggiore di questo mestiere era proprio riuscire a radunare la gente per fare treppo. Ogni cantastorie aveva il suo asso nella manica, il trucco ammaliatore. Il vecchio Giulio Monnè «metteva un turbante e misurava la pressione con una calamita». A Milano Pietro Cremona «faceva giochi di prestigio e si vestiva da cow-boy», mentre sui colli piacentini si aggirava Aldo Visagli che «incantava servendosi di un serpente». Quel «Clark Gable» dell’Adriano Callegari, figlio d’arte di Agostino, prima di sfoggiare il desueto sassofono da cantastorie, imboniva da commediante consumato con il pre-fantozziano «Venghino signori, venghino: avvicinarsi per ammirare i due topolini ammaestrati Tommi e Gimmi», che sarebbero usciti dalla scatola per suonare uno la chitarra e l’altro il violino. Un cerimoniale clownesco al quale faceva seguito la vendita del lunario del Barbanera – il più ricercato dai contadini –, di medagliette della Madonna, lucido da scarpe o del «cofanetto fosforescente» dello stesso Callegari junior, dal quale millantava si sarebbe vista l’immagine di Papa Giovanni. Piccole burle, a difesa delle quali Callegari ammetteva: «Imbrogliati tanti, ma ingannati mai». CHITARRA, CARTELLONE E «FAR GIRARE IL CAPPELLO» La parte più vera o quanto meno verosimile del treppo era rappresentata dalle storie cantate. Il repertorio variava da regione a regione, così come la durata degli spettacoli. Al Nord il tutto si esauriva anche in una ventina di minuti. Al Sud prima di «far girare il cappello» per la raccolta delle graditissime offerte, potevano anche trascorrere un paio d’ore. E mentre il cantastorie lombardo o i celebri emiliani Marino Piazza, Mario Bruzzi e il “Padella”, al secolo Giovanni Parenti, si accompagnavano solo di chitarra, fisarmonica e fogli volanti, quelli meridionali come il calabrese Otello Profazio o Ciccio Busacca non rinunciarono mai al «cartellone» con i suoi cambi di scena. Le piccole orchestrine da «ambulanti», tassativamente munite di licenza per non incorrere nelle multe della gendarmeria, erano composte da tre­quattro elementi che a volte si ergevano a «jazz-band». Era la scritta che campeggiava sulla batteria e a suonarla all’improvviso furono «le cantastorie». La Dina Boldrini che poi passò alla fisarmonica, Vincenzina Cavallini che accompagnava il marito Angelo, la ragazza dalla voce d’angelo (quanto Giovanna Iris Daffini, «la Callas dei poveri») che commuoveva ogni piazza quando intonava «Mamma perché non torni?». Pezzo straziacuore scritto da Adriano Callegari, stralci di storie orali, racconti d’osteria e arrivate nei cascinali in cui i primi cantastorie si esibivano «a chiamata», specie d’inverno, nelle stalle. Brandelli di cronaca carpiti dai giornali, adattati sempre alla località in cui il cantastorie transitava e aggiornati come un rudimentale televideo. A tenere banco prima della Grande Guerra erano le canzoni sul tragico naufragio della Sirio (affondata nel 1906), il nostro Titanic, poi la Bella ciao nella versione delle mondine o Miniera, osteggiata dal regime fascista in quanto considerata non in linea con lo sfarzo imperiale preteso dal Duce, salvo poi essere rispolverata più tardi dopo la tragedia di Marcinelle. Lo sfondo politico (tranne che nel milanese Francesco Trincale) non appartiene al cantastorie classico, che si limita alla satira anche quando negli anni ’70 dalla piazza passa davanti ai cancelli della Fiat o dell’Alfa Romeo e il pubblico che applaude è quello delle tute blu dei cassintegrati in sciopero. Fermi immagine in bianco e nero, di cui restano tracce sulla neve di quest’inverno postmoderno ormai alla fine. Ma c’è ancora qualche «Pollicino» che arriva in qualche piazza di provincia, mette su il treppo e intona: «Anche un cantastorie può essere utile in una bufera».
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