martedì 19 maggio 2015
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​Cosa resta della dignità degli uomini schiacciati dalla brutalità di una società votata esclusivamente al profitto, umiliata dalla precarietà del lavoro e dall’arroganza di aziende per le quali un individuo è solo l’anonimo tassello che compone una statistica? E quanto vale un essere umano? Intorno a questi temi ruota La loi du marché di Stéphane Brizé, che mettendo a confronto il bravissimo Vincent Lindon (serio candidato alla Palma d’Oro), con un gruppo di attori non professionisti (ognuno dei quali ricopre lo stesso ruolo che ha nella vita), racconta la storia di un cinquantenne disoccupato da venti mesi, alle prese con nuovo lavoro e un dilemma morale: fino a dove siamo disposti ad arrivare per conservare il nostro posto di lavoro? Thierry è un brav’uomo, ha una moglie con cui si concede qualche lezione di ballo e un figlio disabile al quale si dedica con gioia. Aveva anche un lavoro che ha perso non per sua incapacità, ma perché dopo venticinque anni i padroni hanno deciso di trasferire la produzione in un altro paese dove la manodopera costa meno. L’uomo è dunque la vittima di qualche invisibile azionista al quale il denaro che guadagna non basta più. Il regista lo immagina come un pugile che incassa colpi in continuazione, senza soffermarsi sui pugni che ogni tanto sferra. Lo osserviamo durante i degradanti colloqui con l’ufficio di collocamento con il quale discute su inutili corsi di formazione, con la banca che gli consiglia di vendere la casa e gli fa pure la morale, con potenziali datori di lavoro che gli parlano attraverso Skype proponendogli compensi ridicoli. Thierry non ha più un posto all’interno del sistema e quando accetta il lavoro di sorvegliante in un supermercato non ha altra scelta. Il suo compito è osservare i clienti attraverso le telecamere, spiare e denunciare chi ruba. Ma quando i ladri sono un anziano che si mette in tasca la carne perché ha fame e non ha soldi o una stessa impiegata che si suiciderà quando verrà scoperta a nascondere buoni sconto per mantenere il figlio tossicodipendente, le cose cambiano. Therry che insieme a noi diventa spettatore delle miserie altrui, si accorge di non poter infierire su chi sta peggio di lui. Incollata al protagonista per restituirci esclusivamente il suo punto di vista e il suo sguardo dolente, la macchina da presa testimonia, con uno stile semidocumentaristico mutuato dai fratelli Dardenne, la dolorosa e quotidiana odissea di un uomo qualunque alle prese con la violenza di un mondo che trasforma le persone in carne da macello. Ma Thierry resiste coraggiosamente alle spietate leggi di mercato, lotta in silenzio per pagare il mutuo, mantenere la famiglia e non soccombere nella battaglia tra poveri, sforzandosi di mettere a sfrutto il tempo libero. Senza drammi, retorica, autocommiserazione, rivendicazioni politiche o ideologiche. Un po’ come Marion Cotillard in Due giorni, una notte. «L’idea del film nasce da un reportage visto in tv – racconta Lindon – su due dipendenti di un centro commerciale costretti a fare cose terribili per non perdere il lavoro. L’intenzione non era quella di fare un film politico, ma rendere omaggio alla dignità dei lavoratori. Nessuno, neanche il cinema però può guardarsi intorno e fare finta di niente». L’essenzialità e la concisione della messa in scena, determinate da un budget assai ridotto (1 milione e 400mila euro) e da una troupe leggera ma pagata, non solo dimostrano che fare cinema è possibile anche in tempi di crisi economica, ma contribuiscono a dare forza a questo sobrio, ma intenso dramma sociale minimalista, restituire a Therry la nobiltà che nessuno riuscirà a strappargli e allo spettatore l’amaro ritratto di una umanità fisicamente maltrattata e moralmente offesa.
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