giovedì 5 ottobre 2017
Dalla storica protesta olimpica di Smith e Carlos al caso della Catalogna, col nazionale spagnolo Piqué, dalla propaganda dell'ex milanista Kaladze al candidato premier della Liberia George Weah
Quando la politica scende in campo con i campioni
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Tu chiamale se vuoi: contaminazioni. Sport e politica, legami antichi come il mondo, in ballo soldi e interessi, si fa spettacolo, si fa propaganda. Passano gli anni, cambia il contesto sociale, accartocciate le rivoluzioni, il fine ultimo è il consenso: per l’etica, si prega di ripassare. In Catalogna in questi giorni si gioca una partita che avrà ripercussioni in tutti campi, di gioco e non. Il referendum sull’indipendenza è stato appoggiato da miti “culè” - così vengono chiamati quelli del Barcellona - come Pep Guardiola e Gerard Piqué. Il difensore ha preso in considerazione l’ipotesi di non giocare più per la nazionale spagnola. «Se sono un problema, mi faccio da parte». Salvo poi però precisare: «Orgoglioso di far parte di questa Spagna, io non lascio la nazionale. Un indipendentista può giocare nella Spagna, ma non è il mio caso». Da Madrid, il collega ed acerrimo nemico del Real, Sergio Ramos, si era subito alterato dopo la prima uscita a vuoto di Piqué. Prese di posizione, scelte di campo, rifiuti ideologici che vanno a legarsi - nel ricordo del tempo che fu - a poster ingialliti affissi sul muro della nostra memoria collettiva.

Se c’è un’immagine che abbraccia sport e politica nell’era moderna, è quella dei Giochi Olimpici di Città del Messico, nel 1968: gli atleti afroamericani Tommy Smith e John Carlos, durante la premiazione dei 200 metri piani (ma c’era a sostenerli anche il bianco australiano Peter Norman), scalzi sul podio, alzano in segno di protesta il pugno chiuso e guantato a sostegno del movimento “Olympic Project for Human Rights”, ovvero il Progetto Olimpico per i Diritti Umani e di “Potere nero”.

Da allora, niente sarà più come prima. Del resto: chi e cosa sono, se non figli e nipoti di Smith e Carlos, i professionisti della Nfl americana che si inginocchiano durante l’inno per protestare contro la politica razzista del presidente Donadl Trump? Valga lo stesso per i cestisti di Golden State Warriors che di recente si sono sfilati dal rito della visita ufficiale alla Casa Bianca: è di politica che stiamo parlando, lo sport diventa un mezzo, non più un fine. Eppure: per anni il campione si è autocensurato. Parlare di politica, fare politica, «sporcarsi » con la politica, non conveniva a nessuno. Rari i casi in cui l’atleta prendeva coscienza e la manifestava pubblicamente. L’Italia di Panatta che - di rosso vestita - nel ’76 vince la Davis nel Cile di Pinochet. Il modello insuperato della “Democrazia Corinthiana” del dottor Socrates. Giochi di squadra, scelte dei singoli. Due lampi dagli anni ’70: Paolo Sollier - «calciatore per caso e compagno militante» - che esibisce il pugno chiuso dopo un gol e regala ai compagni copie di “Avanguardia operaia”, il calciatore cileno Carlos Caszely che - per rispetto alla madre torturata in gioventù dai golpisti - annuncia di votare «NO» alla vigilia del referendum indetto da Pinochet nel ’78. Dal maoista Paul Breitner che si fa fotografare accanto al poster di Marx a Paolo Di Canio che fa il saluto romano nel derby: così la politica è entrata in area di rigore.

Più che altro, in verità, da noi lo sportivo è spesso entrato in gioco quando i giochi sono già fatti, a carriera finita. Il “Fornaretto” Amedeo Amadei che negli anni ’50 alle elezioni comunali di Roma con la Democrazia Cristiana prese 20 mila voti, Gianni Rivera e le sue quattro legislature, Pietro Mennea in Parlamento. Ora è diverso, molte cose sono cambiate. Il difensore georgiano Kakha Kaladze è entrato in politica nel dicembre del 2011, stava chiudendo la carriera nel Genoa dopo un decennio di gloria al Milan. Quell’anno ha appoggiato la campagna “Georgian Dream” - ricorda qualcosa? - di Bidzina Ivanishvili, l’uomo più potente della Georgia. È stato Ministro dell’Energia e delle Risorse Naturali, poi vicepremier, ora corre per la carica di sindaco di Tblisi. Non è un caso che qualche giorno fa abbia organizzato - in pompa magna e a favore di telecamera un’amichevole benefica nella sua città. C’erano Totti, Rivaldo, Cafu, Shevchenko, Zanetti, Maldini: tante stelle da parata, per una sana e inconsapevole (ma dove? ma quando?) propaganda.

La popolarità è un ottimo piedistallo: il pugile filippino Manny Pacquiao, dieci titoli mondiali in bacheca, nel 2016 è stato eletto in Senato (ma è un’assenteista da record); il mezzofondista Sebastian Coe, due volte campione olimpico nei 1.500 piani Mosca ’80 e Los Angeles ’84 è diventato 'l’uomo-macchina' delle Olimpiadi 2012 a Londra grazie al percorso fatto negli anni in pista (vedi alla voce popolarità) ma anche a quello fatto nel Partito Conservatore (vedi alla voce politica). Di George Weah - poderoso centravanti rossonero - tutti ricordano il “coast to coast” di San Siro, quando segnò un gol al Verona scavallando per tutto il campo. Oggi, il capello ingrigito - le rughe feroci a far da impalcatura agli sguardi - salta da un ufficio all’altro, da un palco all’altro, da un comizio all’altro senza soluzione di continuità: l’ex Pallone d’Oro si è candidato ufficialmente come presidente del suo paese d’origine, una Liberia che sta cercando di uscire dal buio di una sanguinosa guerra civile che per anni l’ha tenuta sotto scacco. Traguardo vicino, si vota il 10 ottobre. Niente di nuovo sul fronte africano: già nel 2004 Weah tentò la scalata ma venne sconfitto da Ellen Johnson-Sirleaf, primo presidente ad essere stato eletto dopo libere elezioni e già Nobel per la Pace. Lo slogan di Weah non si incrina ai dubbi: «Sono l’uomo del cambiamento». Chi non cambia è il dittatore coreano di Pyongyang. Pare ci sia lui dietro il rifiuto del calciatore del Perugia Han di partecipare alla “Domenica Sportiva”. Troppa esposizione, troppa pressione. Pure quella di Han è stata una scelta di campo: si è chiuso in albergo. Serrata la bocca, tappate le orecchie. E tutto il mondo fuori.

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