domenica 22 novembre 2009
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«Non sono affatto sorpreso da gesti estremi come quello del 32enne portiere dell’Hannover Robert Enke. Il problema della depressione esiste da tempo nello sport professionistico, ma all’esterno, sui media, appare una realtà solo dorata». Giuseppe Vercelli, responsabile dell’Unità operativa in psicologia dello sport presso l’Università di Torino, studia da vicino le dinamiche interiori degli atleti. Psicoterapeuta delle nazionali di sci alpino, canoa e kayak, oltre che delle giovanili della Juventus, Vercelli ha “allenato” sportivi del calibro di Giorgio Rocca, Josefa Idem, Antonio Rossi a vincere anche con la mente.Perché persone che con lo sport hanno ottenuto fama e successo cadono poi in gravi stati depressivi?«Alla base c’è sempre il divario tra come la persona si sente e come viene percepita dall’esterno. Più crescono le aspettative degli altri, più l’atleta ha bisogno di energie per sentirsi all’altezza. Quando questa forza viene a mancare è facile cedere alla depressione. Spesso si mascherano queste debolezze e vengono fuori gesti imprevedibili». Quali sono le discipline più a rischio?«È una tendenza più comune negli sport di squadra dove è importante il supporto del gruppo. In quelli individuali si è più abituati a lavorare su se stessi e a controllare lo stress. Non abbiamo ancora dati scientifici ma è un fenomeno in aumento anche tra gli sport minori, sebbene non se ne parli mai. Pensiamo al ciclismo: per emergere vengono spesso proposte sostanze dopanti. Senza una forte personalità e un sostegno adeguato è facile cadere. Lo stesso Pantani fu lasciato solo…».Quale responsabilità hanno allenatori e dirigenti?«Ambienti in cui le pressioni vengono esasperate non favoriscono il benessere mentale. L’agonismo diventa patologico quando conta il risultato a tutti i costi. Un momento chiave è quello in cui si passa dai dilettanti al professionismo: se lo sport è l’unico ripiego e non si riesce a sfondare c’è un crollo della vita personale».In questo caso quali soluzioni adottare?«È importante che i genitori non riversino sui figli aspettative esagerate. Oggi però gli allenatori mi sembrano più formati. Non come avveniva nell’ ex Urss dove gli atleti a carriera finita hanno poi perso la sfida con la vita. In genere i più vulnerabili alla depressione sono quelli che hanno raggiunto il successo e poi l’hanno perso. Soprattutto nel calcio professionistico in cui c’è un maggiore distacco dalla realtà, perché si entra a far parte di un’ élite da cui è difficile uscire. Anche Gianluca Pessotto, quando ha smesso, sentiva l’esigenza di trovare un nuovo ruolo in un mondo diverso».Perché nonostante ci siano già psicologi nelle squadre il fenomeno della depressione tende a crescere?«La psicologia dello sport è una disciplina nata negli anni Sessanta, ma si è sviluppata solo da un decennio. Ora sta emergendo la consapevolezza che la preparazione atletica non basta. Occorre anche quella mentale, ma sono ancora poche le squadre che la fanno. C’è bisogno di psicologi con competenze psicoterapeutiche per insegnare agli atleti a interpretare il proprio disagio e gestire al meglio le proprie emozioni: per sentirsi liberi e vivi, sempre».
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