martedì 29 marzo 2016
​​Il volume "Dio, uomini e città" prosegue il dibattito sul vivere comune intorno agli spazi delle chiese cristiane in cui il campanile va visto nella sua capacità di accentrare valore monumentale civico e religioso.
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Nel paesaggio urbano il campanile è sicuro punto di orientamento. Spesso è anche indicatore del centro del borgo o della città, nel caso di una cattedrale. Ma il campanile non è solo un termine visivo, è anche profondamente simbolico nella sua capacità di accentrare valore topografico, religioso e civico. Su quale sia il contributo nella storia antica e recente della “Chiesa” e delle “chiese”, alla definizione del vivere comune e dei suoi spazi sono dedicati alcuni dei saggi contenuti nel volume Dio uomini e città (a cura di Alberto Bondolfi e Milena Mariani, pagine 152, euro 13,00), frutto del convegno organizzato nel 2014 dal Centro per le Scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Siamo abituati a identificare la città medievale nella cattedrale. Il grande edificio raccorda in sé la funzione religiosa e l’identità civica. Ma qual era l’effettivo ruolo del vescovo, di cui la cattedrale è sede? E quali dinamiche genera all’interno del contesto urbano? Emanuele Curzel, docente di storia medievale presso l’Università di Trento, ricorda come già il cristianesimo delle origini, «assecondando la struttura sociale e amministrativa dell’Impero, era essenzialmente cittadino». Il ruolo del vescovo si fortifica a partire dal IV secolo con il passaggio della fede cristiana a culto ufficiale dell’Impero: «Era inevitabile – scrive Curzel – che il capo della comunità cristiana divenisse uno dei personaggi più in vista delle aggregazioni urbane. La partecipazione dei vescovi alla vita civile fu prevista dalla legge, sia in ordine alla composizione delle vertenze sia in vista dell’affidamento di funzioni di controllo e di difesa della cittadinanza», specialmente dei più deboli. Un attributo, quello del defensor civitatis, che diviene centrale nell’elaborazione iconografica dei santi vescovi patroni così come è presentata nelle lunette dei portali delle cattedrali, punto di intersezione tra lo spazio chiuso sacro e lo spazio aperto urbano della piazza. Affiancati alle magistrature cittadine laiche, «i vescovi, spinti sia dal mandato evangelico sia dal tradizionale senso di responsabilità della classe dirigente romana nei confronti della vita pubblica, assumevano anche compiti di carattere sociale e politico; la crescita stessa del proprio patrimonio permise e in qualche misura costrinse le Chiese a divenire promotrici della costruzione di edifici aventi carattere non solo sacro, ma anche assistenziale e difensivo, soprattutto dal momento in cui la crisi dell’organizzazione statale romana divenne palese».

Il culto del patrono e la memoria delle origini cristiane diventano la ragione fondante delle collettività. Le reliquie dei protovescovi erano spesso tumulate in basiliche extra moenia. Queste vengono inglobate nella mura cittadine o i resti santi vengono traslati in nuove chiese intra moenia: «Gli edifici sacri e i loro annessi caratterizzavano il centro abitato e ne modificavano l’impianto rispetto alla città romana». È la base su cui si sviluppa la civiltà urbana medievale, entro la quale il vescovo acquista per volontà dell’imperatore anche un potere temporale, spesso in opposizione all’espansione di quello comitale, sempre più impronta- to a un modello signorile-padronale. Alle Chiese locali nel X secolo viene spesso delegata la gestione delle strutture difensive, della viabilità, dei mercati. «In questo modo – commenta Curzel – la città conquistava, sia pure sotto il controllo vescovile, l’autonomia giuridica rispetto al territorio circostante», ossia il “contado”, soggetto al potere dei conti. «L’acquisizione del potere temporale da parte dei vescovi», dunque, «non fu espansione illegittima o semplice supplenza, ma maturazione di un rapporto che già esisteva tra ruolo vescovile e città». La frattura avviene soltanto con lo scontro papato-impero, in cui le città percepirono sempre più i vescovi «come capi di una “parte”, papale o imperiale, estranea alle dinamiche cittadine, e finirono per dotarsi di magistrature più direttamente rappresentative dello spazio pubblico locale». È però in questa fase, paradossalmente, che la cattedrale, insieme al palazzo del governo comunale, diventa il polo centrale cittadino. Se dunque la Chiesa ha avuto una funzione centrale nella definizione dell’identità urbanistica e politica della città, cosa ne è oggi, in una società ormai postcristiana? Quale la funzione e il volto del segno sacro in contesti e dinamiche di una dimensione urbana secolarizzata? Maria Antonietta Crippa, docente di storia dell’architettura presso il Politecnico di Milano, propone un’interpretazione degli edifici sacri nelle città, in particolar modo nelle periferie, luoghi di espansione tumultuosa e alienante guidata dai processi dell’industrializzazione. 

 

 Per la Crippa, infatti, è inevitabile interrogarsi «sulle ragioni profonde del contrasto tra modi di vita, nei recenti assetti abitativi, e ritmi di tempi e figure di spazi elaborati dal passato e, per frammenti, ancora presenti tra noi». C’è il rischio che uno spazio sacro inserito nel quartiere senza differenziarsene non riproduca che l’esistente, facendo ritrovare all’uomo solo la sua mediocrità. Serve dunque un «sussulto iniziatico », un processo di «defamilizzazione » che evochi «i caratteri strutturanti la spazialità di una chiesa, strettamente connessi al rito prima che agli individuali linguaggi espressivi». È un carattere chiaro alle prime comunità cristiane, che «avvertirono subito la necessità di segni di identificazione». Rispetto ad allora, però, la capacità simbolica e il senso del sacro si sono affievoliti, benché non del tutto scomparsi. «L’edificio della chiesa – scrive Crippa – localizza, in quanto segno e luogo, il rapporto tra Dio e il popolo che si sente convocato. È anche luogo ove la coralità di popolo che si riconosce tale nell’unico Dio si rende evidente a ognuno dei suoi membri. È infine luogo con una forma concepita per far emergere, nel contesto urbano, il senso cristiano della vita, che ha il proprio vertice di comunicazione nella liturgia, in cui Dio si fa realmente presenza». Le migliaia di chiese parrocchiali costruite in Italia nella seconda metà del XX secolo «sono concepite con un ruolo di centralità urbana identificata più normalmente come centralità di quartiere ». Nell’insieme «si tratta di un patrimonio  importante, meritevole di un’indagine che sappia coglierne la ricchezza formale, costruttiva e insediativa ». Le chiese parrocchiali degli ultimi settant’anni «non si propongono con la monumentalità di chiese cattedrali, sono anzi, nella stragrande maggioranza dei casi, costruzioni di modeste dimensioni, il cui valore di centralità urbana diventa fisicamente sempre più debole man mano che l’urbanizzazione le ingloba e gli edifici civili diventano più alti e imponenti. Si sta aprendo, insomma, la necessità di una più puntuale attenzione alla qualità specifica del loro spazio interno, dell’alterità simbolica che esso non può non continuare a proporre se si vuole che l’edificio chiesa connoti peculiarità religiose. Anche la loro configurazione esterna esige di essere riesaminata, soprattutto se si vuole salvaguardare il valore di soglia che il loro ingressi, i sagrati e le piazze veicolano segnalando, al tempo stesso, una dimensione di dialogo tra la vita religiosa e la vita civile delle comunità, che è preziosa eredità dell’umanesimo cristiano».

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