giovedì 27 settembre 2012
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Nei Canti orfici Dino Cam­pana (Marradi, 1885 - Ca­stelpulci, Scandicci, 1932) racconta il suo 'pellegri­naggio' alla Verna. Il poeta usa proprio quest’espressione, ma va intesa non nel senso classico, devozionale. Campana si consi­dera pellegrino in tutte le loca­lità abbracciate dal suo sguardo, anche quella Pampa forse visita­ta durante il suo soggiorno in Ar­gentina e cantata, in quel libro unico, sotto ogni punto di vista, a cui è legato il suo nome. Ma tornare su quella descrizione della Verna e soprattutto di san Francesco apre ad aspetti di Campana da prendere in esame. Francesco gli appare «come l’ombra di Cristo, rassegnata, na­ta in terra d’umanesimo, che ac­cetta il suo destino nella solitu­dine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine in­tona il canto alla natura con fe­de: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano». La religiosità di Dino Campana è un tema da approfondire e da non banalizzare. È ricco di spunti an­che in questa direzione quello che si potrebbe definire, per molti versi, il lavoro di una vita: il carteggio campaniano più completo (1903-1931) e altre te­stimonianze epistolari (1903-1998) che raccoglie per Polistam­pa, sotto il titolo di Lettere di un povero diavolo le fatiche e la cura pluridecennali dedicate a Cam­pana dallo scrittore argentino Gabriel Cacho Millet. Lavoro fi­lologicamente accurato, da cui traspaiono passione e rigore, si compone di 221 documenti che si coniugano, in modo comple­mentare agli altri testi di Campana sper­so per il mondo curato da Ca­cho Millet per Olschki. Dun­que, la religio­sità di Campa­na: «Quello che scrive Dino su San Francesco, che appare co­me ombra di Cristo, la sua rinuncia sem­plice e dolce è espressiva della visione di un lai­co, non di un credente. Campa­na, si sa, ha scritto un solo libro: i Canti orfici. Un libro che è fon­damentalmente un viaggio ini­ziatico ». In questo viaggio si in­serisce la peregrinazione al san­tuario francescano de La Verna. È una tappa singolare del suo 'viaggio' per il mondo, che si conclude in un crescendo non più cristiano sulla Pampa argen­tina, «sulla terra infinitamente deserta e misteriosa» con l’appa­rizione dell’ «uomo libero che tendeva le braccia al cielo infini­to non deturpato dall’ombra di nessun Dio». L’uomo libero non è più l’uomo nuovo del Vangelo e Dio, dopo aver letto Nietzsche, non c’è. In cie­lo ci sono sol­tanto «le stelle impassibili». Il Poeta sembra così non avere più quella fede che 'si tocca' nel componi­mento su La Verna. Ed è lì che il suo credo cristiano va principalmente cercato. È il diario della sua fede d’allora. «Poi andrà in cerca dell’assoluto nella poesia, giurando fede sol­tanto all’azzurro.» In una lettera del 1916, a Mario Novaro, tra gli aforismi proposti per la pubblicazione su una rivi­sta, propone un giudizio affilato, ma tutto sommato ambivalente: «L’arte è espressione. Ciò farebbe supporre una realtà. L’Italia è co­me fu sempre: teologica». Aller­gico alla retorica nazionalista («D’Annunzio vate grammofo­no ») che invece attrae non pochi suoi compaesani, compreso l’ar­ciprete «con voce di bue», Cam­pana, che ha studiato dai sale­siani, incontra tutti, si aggrega, talvolta si ritrova come in una gi­ta compiuta nel gennaio 1912 sul Falterona, con due preti salesiani (i fratelli don Francesco e don Stefano Bosi), l’avvocato Maz­zotti che sarà tra i fondatori del Partito popolare, un compagno di collegio, Diego Babini, e lo stravagante compositore Lam­berto Caffarelli. Una costante nella ricostruzione biografica di Campana e dei suoi tratti caratteriali è l’influenza ne­gativa della madre Francesca Lu­ti detta Fanny, tale da determi­narne la nevrastenia. Ma Cacho Millet non è di questo avviso: «Credo che si debba dire che era­no i parenti da parte di padre ad avere debolezze mentali. Quan­do lo zio Mario, fratello minore del padre e frate, viene mandato via dal convento, rimane a casa dei Campana per un certo tem­po. Questo zio non era un per­vertito, come qualcuno ha scrit­to, ma un uomo alla ricerca dell’assoluto totale. Non voleva avere rapporti con gente che non credeva come lui, né avvicinarsi all’altare perché si sentiva pecca­tore ». In qualche modo può ave­re influenzato Dino «che era, al­lora, un bambino». Nella famiglia Campana c’erano religiosi consacrati: due cugini di Dino, suor Maria e il suo fratello, fra Gaetano, missionario in India per 14 anni. «Quando la cognata di questo frate si sposò - raccon­ta Cacho Millet - la madre di Di­no le donò un’immagine di bronzo di san Pietro dicendole: questo è il dono di una poveret­ta. Vorrei dire che con la madre di Campana si è veramente an­dati un po’ oltre. La vena di paz­zia percorre il ramo paterno del­la famiglia, non la madre nella quale c’è una sorta di cattolicesi­mo popolare e un’ammirazione profonda, per l’appunto, verso san Francesco. Francesco come ombra di Cristo ricorda proprio l’immagine di Murillo che lei manderà a Sibilla Aleramo: San Francesco che abbraccia il Cri­sto. Per devozione al Santo la madre del Poeta diventerà ter­ziaria francescana e prima di morire chiederà di essere sepolta con l’abito del 'Poverello' d’As­sisi». La religiosità di Campana è un fi­lone nuovo da studiare, possibil­mente da comprendere nell’am­bito di quella ricostruzione bio­grafica e degli scritti che non co­nosce ancora una sistematizza­zione compiuta. In questa dire­zione è andato il lavoro di Ga­briel Cacho Millet, convinto che materiali campaniani siano an­cora sparsi in giro, anzi «spersi». Cominiciano qua e là ad appari­re anche frammenti spuri, pezzi di carta che Campana avrebbe u­sato nel manicomio di Castel­pulci, negli ultimi anni della sua vita, come anche una lettera a Sibilla Aleramo completamente falsa. Vengono messi in vendita ma non sono autentici. Bisogna piuttosto esplorare gli archivi. Chissà, ad esempio, se è c’è qual­che riferimento a Campana nelle carte - sempre che siano rimaste - del cardinale Federico Cattani Amadori, nato a Marradi nel 1856 e morto a Roma nel 1943. Sicuramente al cardinale non deve essere sfuggita la storia del suo concittadino. Oppure negli archivi dell’ordine delle suore di Castelpulci. Una di loro, tanti anni fa, fu intervistata e parlò di Campana come di un uomo buono e gentile che l’aiutava a fare le polpette in cucina. Ma so­no decisivi documenti per pas­sare dall’anedottica alla storio­grafia. © RIPRODUZIONE RISERVATA Dino Campana (secondo da destra) in una gita al Falterona nel 1912.
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