lunedì 1 dicembre 2014
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«Per molti anni ho cercato l’immagine mancante, una fotografia scattata tra il 1975 e il 1979 dai khmer rossi quando governavano la Cambogia. Di per sé, ovviamente, un’immagine non può testimoniare un omicidio di massa, ma dà modo di riflettere, di ricordare. L’ho cercata invano negli archivi, nei vecchi documenti, nei villaggi. Oggi lo so: quest’immagine deve essere mancante. Non la stavo cercando davvero: non sarebbe infatti stata oscena e insignificante? Così l’ho creata. Ciò che oggi vi consegno non è l’immagine, ma il quadro di un’indagine, quella resa possibile dal cinema». Così il regista Rithy Panh spiega il senso del suo L’immagine mancante, candidato all’Oscar assieme alla Grande bellezza di Sorrentino lo scorso anno e vincitore di un premio al Festival di Cannes 2013. Pahn tenta da anni di ricostruire la memoria del genocidio voluto da Pol Pot («Vedo uno stretto legame tra l’assenza di lavoro sulla memoria, il deficit di democrazia, la mancanza di uno Stato di diritto e il sottosviluppo») e ci racconta questa volta quattro anni della sua infanzia vissuti nei campi di lavoro insieme alla sua famiglia, sterminata poco a poco per la fatica e la fame, dopo la deportazione che seguì l’arrivo dei khmer rossi a Phnom Penh e la trasformazione della nazione intera in un campo di concentramento maoista. Ma, proprio a causa della scarsità del materiale d’archivio, il regista racconta in prima persona quello che accadeva nelle campagne, dove anche i bambini lavoravano dodici ore al giorno mangiando solo pochi grammi di riso. Un abito nero e un cucchiaio era tutto ciò che possedevano. «Per resistere è necessario conservare un pensiero, un ricordo. Infatti è possibile rubare un’immagine, ma non un pensiero», dice il regista che ha tratto il film dal suo libro Elimination scritto con Christophe Bataille. Ed ecco allora che le stazioni di questa disumana via crucis sono illustrare da statuine di terracotta realizzate e dipinte a mano, inserite in un paesaggio di cartapesta che danno forma ai ricordi di Pahn e ci regalano immagini strazianti e poetiche del martirio di una popolazione che contò due milioni di morti. L’immagine mancante, oggi al Festival di Torino e dal 4 dicembre nelle sale, diventa una sorta di film a pupazzi inanimati, che nella loro fissità suggeriscono il senso di alienazione e perdita di identità, sgomento e terrore.«Quando si esce da una tragedia come quella vissuta dalla Cambogia ci sono due strade possibili: parlare o difendersi con il silenzio. Io ho bisogno di dire, sono diventato regista per non soccombere al dolore, ispirato anche dalla sincerità, dalla forza e dal rigore di un maestro come Roberto Rossellini. Ho avuto la chance di sopravvivere e il minimo che posso fare è restituire dignità a quelli che sono morti. Considero questo un’urgenza di fronte alla storia, alla memoria distrutta, all’identità annientata, alla religione calpestata, alla disumanizzazione. Questo non può saperlo chi se ne sta nei salotti di Parigi, quegli occidentali che credono ancora alla favola dell’ideale comunista democratico e popolare. Quello che conta è solo l’uomo».
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