martedì 27 settembre 2011
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I conti sulle mostre dedicate ad Artemisia son presto fatti: giusto vent’anni fa la prima, a Firenze, Casa Buonarroti (curata da Roberto Contini, Gianni Papi e Luciano Berti); dieci anni dopo quella romana di Palazzo Venezia, che accostava i Gentileschi padre e figlia. E poi eccoci qua, a questa che è la più consistente mostra monografica dedicata ad Artemisia Gentileschi che sia mai stata allestita (più di quaranta opere tutte insieme non si erano mai viste), «pur con la tara di pezzi contumaci non per bizzarra amnesia dei curatori», come si affrettano a mettere in chiaro Roberto Contini e Francesco Solinas nella premessa al catalogo (due per tutti, la Susanna e i vecchioni di Pommersfelden e l’Allegoria della pittura di Windsor Castle). Tare a parte, se ne esce, intanto, definitivamente confermati nella constatazione che fu originariamente di Roberto Longhi (era il 1916 e su Artemisia ancora calcava il silenzio): Artemisia è «l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura».
E che pittura. Forse proprio a dispetto di quei "pezzi contumaci", certamente imprescindibili nel curriculum di Artemisia, in questa fase di catalogo in progress che vede ancora molto da vagliare, la mostra (e il catalogo, edito da 24 Ore Cultura, è destinato a restare opera di riferimento per gli studi a venire) inserisce non poche tessere, anche attraverso nuove acquisizioni, nel mosaico dell’intero arco della produzione artemisiana (per esempio alla sua stagione veneziana, tutta da colmare, nella quale è probabile che possa inserirsi e gettar luce la splendida inedita Suonatrice di collezione privata, fortemente sensibile alla pittura italiana di Simon Vouet, al quale sulla fine del terzo decennio del ’600, tra Roma e Venezia, Artemisia fu molto vicina), a partire da una Vergine che allatta il Bambino di recentissima acquisizione che precede di almeno otto anni l’analogo soggetto della Galleria Palatina, collocandosi così tra le prime prove pittoriche autonome dell’artista; e a seguire da opere letteralmente «restituite» dal restauro condotto con l’occasione espositiva, com’è il caso della Giuditta e la fantesca Abra con la testa di Oloferne del Museo Nazionale di Capodimonte, e delle due pale che Artemisia dipinse per la Cattedrale di Pozzuoli, il San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli e i Santi Procolo e Nicea, che attestano la centralità dell’artista negli sviluppi della pittura napoletana.C’è poi una seconda conferma, anche questa robustamente arricchita dalla mostra milanese, ed è quella che Keith Christiansen definì la capacità «camaleontica» di Artemisia. Sì, perché non una, ma due, tre e più Artemisie si ha l’impressione di vedere all’opera in questo suo trapassare da Roma (dal 1608 al 1612 e poi di nuovo dal 1620 al ’27) a Firenze (1612-1620) e a Napoli (dove rimase fino alla morte, a parte le brevi interruzioni veneziana e londinese, avvenuta nel 1656). Quel che in lei costituisce un singolare continuum è infatti un raffinatissimo e complesso distillato che sull’istanza caravaggesca presa a far per così dire da canovaccio innesta un sapore di cangiante contemporaneità nutrendosi (anzi fagocitandole e rendendole «sue») delle più suggestive novità «locali», dal Cigoli all’Allori, che a Firenze si impastano alla sua visione «romana», a Vouet, allo Stanzione, fino agli echi napoletani del Cavallino e del Guarino.Nonostante il sottotitolo della mostra, «Storia di una passione», facesse temere il peggio, per fortuna dunque il peggio non è avvenuto. Perché se Artemisia fu di fatto la prima donna che ebbe accesso all’Accademia del disegno di Firenze, e come una che di pittura ne sapeva fu apprezzata nelle grandi corti europee secentesche, dal granduca di Toscana fino a casa Stuart, poi quella fama si eclissò adombrata dietro il celebre fattaccio dello stupro e il caso giudiziario che ne seguì. Fino, come si diceva, al secolo scorso, quando guardando al caso suo non si smise di parlar di processi, ma si cominciò quantomeno a riparlar di pittura. E tuttavia lo spettro del fattaccio, soffocante, deviante, incombeva e inesorabilmente incombe: Artemisia "era" Giuditta, "era" Susanna, più per ragioni "politiche" che per l’evidenza del mestiere, altissimo. Perché del resto quell’insistenza sul "femminile", che indubitabilmente nell’opera di Artemisia c’è? Beh, per ragioni diverse (e comunque nel ’600 le opere a destinazione privata – e le commissioni pubbliche per Artemisia furono le rarissime del periodo napoletano – avevano frequentemente a soggetto eroine femminili), di cui una però va direttamente alla sostanza dell’invenzione, e consiste precisamente nell’idea insistita e inseguita fino all’estremo di riversare la potente visione caravaggesca "dentro" la figura femminile, spostandone la centralità dalla bellezza alla presenza dinamica, quando occorre selvatica, e questo fu il suo personalissimo apporto che a Firenze («Le sue figure femminili "autoriferite", fiere e volumetriche», annota precisamente Contini, «furono un’invenzione e apparvero nel contesto del tutto isolate») e a Roma e definitivamente nella maturità della stagione napoletana, solo apparentemente più pacata, divenne suo paradigma. Certo è che fu proprio lei, Artemisia, all’origine di quel «cambiamento di intonazione nel modo di concepire certi soggetti inventati dal Caravaggio», come già osservava Mina Gregori, sostituendo al distacco impassibile «un atteggiamento partecipato, ma nel senso di una profanità morbosa». Geniale speculare femminile dell’androgino caravaggesco, il lupesco artemisiano? L’idea è suggestiva, e la tentazione di cedervi è forte; quanto lo è la «tentazione fatta carne» della sua Maddalena di collezione Voena.
Milano, Palazzo RealeArtemisia GentileschiStoria di una passioneFino al 29 gennaio
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