martedì 1 luglio 2014
La degenerazione del settore giovanile primo imputato del tracollo azzurro. La via tedesca (366 centri di formazione gestiti dalla Federazione) l’esempio da seguire.
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A sette giorni dal tracollo azzurro al Mondiale, la ristrutturazione della casa calcio vorrebbe ripartire una volta di più dal tetto, inteso come vertici federali. L’azzeramento di Natal, con il presidente Abete estremamente reattivo nel prendere la scia di Prandelli, ha reso obbligatorio il Consiglio Federale che conduca innanzitutto alla costituzione di nuove gerarchie: ma una volta decisa la “nuova” Figc (sia consentito il beneficio del dubbio su una reale volontà di cambio), dal tetto sarà subito il caso di scendere al suolo, anzi, sotto il suolo, nelle fondamenta. Perché volgendo lo sguardo al campo, ai gravi, reali problemi tecnici emersi anche sull’isola un tempo felice della Nazionale, appare evidente che il principale handicap del nostro malandato pallone sia la degenerazione di un settore giovanile non più in grado di produrre un numero sufficiente di elementi da cui scremare, poi, l’eccellenza che faccia volare in alto il palloncino azzurro. La falda italiana di calciatori, un tempo così generosa, si è asciugata. Il vivaio, gestito solo ed esclusivamente dai club, è rimasto sotto logiche di profitto, gestioni economiche, priorità tecniche. Il materiale a disposizione dei tecnici delle Nazionali si è drasticamente ridotto in termini numerici e consequenzialmente qualitativi, e nemmeno le troppo deboli riforme provate negli anni recenti nei campionati giovanili hanno bloccato l’emorragia. Tutto, in Italia, è in mano alle società, a dispetto di un settore giovanile e scolastico federale che ha ben poco dietro la facciata dell’organizzazione di tornei, della composizione di selezioni. I ragazzi crescono dentro le rispettive culle, dove poi giocano, o non giocano, o vengono abbandonati esattamente secondo le logiche del calcio dei grandi: contano innanzitutto i risultati, quindi l’insegnamento tecnico finisce in secondo piano rispetto a quello tattico-fisico; poi, sul gradino più alto - quello delle squadre Primavera -, pesano l’eventuale investimento fatto sul giocatore, i rapporti col suo agente e altri fattori tipicamente mercantili. Proprio il giorno prima dell’inizio del mondiale brasiliano, lo scudetto Primavera è stato vinto dal Chievo, società virtuosa e ammirevole che tuttavia non vanta una tradizione nel terreno del vivaio: protagonista assoluto del successo scaligero è stato un trequartista brasiliano, Victor Da Silva, prelevato nel 2008 dal natìo Mato Grosso. E al suo fianco, hanno evoluito ragazzi chiamati Isnik Alimi, Halil Gjoshi e ancora Toskic, Mbaye, Haddou, Rasak. Una rosa completamente in linea a un trend che ha visto i 20 club della massima divisione schierare nelle rispettive giovanili 122 calciatori stranieri, pari a oltre il 23% del totale. La Juventus, la cui prima squadra mantiene una base fortemente nazionale, è arrivata ad allineare ben 13 non-italiani.Diventa fisiologica dunque la rarefazione di giovani indigeni che passino direttamente dal settore a una Serie A a sua volta già oberata di concorrenza straniera, spesso di mediocre livello. I nostri ragazzi non sanno più giocare a calcio? No, è che semplicemente - quando vengono localizzati - per sodalizi perennemente in lotta con i bilanci costano troppo. La società di origine che ne vuole tanti, maledetti e subito (un esempio: per il 16enne Verratti, il Pescara chiedeva 2 milioni), ed è forte l’investimento da realizzare anche fuori campo (scuola, alloggio, famiglia, spese generali) per un elemento ancora in età molto verde. Ecco perché, allora, sempre più spesso i club-guida del nostro calcio vanno a pescare ragazzi già di 16-17 anni nel Sud del mondo: pressoché tutti gli stranieri dei settori giovanili sono africani (la netta maggioranza), dell’Europa dell’Est, sudamericani da Brasile, Ecuador, Colombia, Perù. Tutti, poi, più facilmente piazzabili all’estero in caso di cessione.Appare chiara, in un quadro simile, la difficoltà a un ravvedimento, a un’inversione di tendenza in nome del bene comune chiamato Nazionale: e allora l’unica via appare quella tedesca, a immagine e somiglianza di quanto fatto in Germania dopo i fallimenti del Mondiale 1998 e di Euro 2000 così simili a quelli azzurri di oggidì. La Bundes-Federazione trovò idee, coraggio e soprattutto risorse per varare un progetto clamoroso, che ne ha fatto il primo e reale gestore dell’intero vivaio nazionale: sono gli osservatori e i tecnici federali a scegliere i ragazzini e ad avviarli al calcio in qualcosa come 366 centri di formazione; poi, i migliori vengono girati ai club, obbligati a seguire regole molto precise sulla loro crescita ed eventuale passaggio al professionismo. Come nella società e nella politica, di fronte al declino lassù hanno opposto le riforme: le stesse che, al di là di nuove parole, rimangono così utopiche in Italia.
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