martedì 2 febbraio 2016
Calcio, Fair play lento, all’italiana
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In questo momento solo il 30% delle squadre di Serie A potrebbe iscriversi al campionato se fossero già in vigore i criteri del fair play economico all’italiana, voluti dalla Figc per evitare altri casi Parma, ma non solo: negli ultimi trent’anni nel nostro Paese sono falliti ben 169 club professionistici comprendendo anche Serie B e Lega Pro (ex Serie C) con 5 milioni di tifosi rimasti temporaneamente senza squadra. Il dato va spiegato per evitare allarmismi: le norme, introdotte da Carlo Tavecchio dopo la bancarotta degli emiliani, saranno applicate a pieno regime a partire dalla stagione 2017-18.Solo da quel torneo saranno validi tutti i parametri di salute economica con la conseguente sanzione dell’esclusione dal campionato. E i bilanci sui quali in questo momento è possibile effettuare simulazioni sono quelli chiusi al 30 giugno 2015, quindi relativi al 2014 (solo il Milan chiude il suo esercizio a fine anno solare). Per questo motivo è possibile che i club abbiano già migliorato alcuni parametri finanziari e i prossimi rendiconti offrano già segnali positivi. Una tendenza che potrebbe rendere meno pessimistiche le previsioni degli esperti chiamati a vigilare sulla riforma del fair play economico all’italiana.È lo stesso presidente federale a fare un quadro severo della situazione: «È una fase delicata - ha spiegato Tavecchio nei giorni scorsi - abbiamo già subito vicende come quella del Parma. Dobbiamo affrontare la questione di società che non hanno titoli per partecipare al campionato. In questo momento le percentuali di chi si potrebbe iscrivere non sono ottimali». Ecco che si arriva a quel 30%. Una conferma che non era solo il Parma a trovarsi in acque agitate è arrivata la scorsa estate quando il Genoa non ha ottenuto la licenza per partecipare all’Europa League perché non era in regola con il pagamento di calciatori acquistati all’estero. Non a caso, questo è uno dei requisiti richiesti dal nuovo regolamento approvato dalla Figc a fine febbraio 2015 e valido già per la stagione in corso. Gli altri parametri - illustrati recentemente dal direttore generale della Federcalcio, Michele Uva, nel corso di un convegno all’università Bocconi al quale ha partecipato anche Karl Heinz Rummenigge - sono per certi versi più severi di quelli varati da Michel Platini ai tempi della sua prima presidenza Uefa. Via Allegri valuterà il rapporto tra asset patrimoniali immediatamente disponibili e debiti a breve - attività correnti e passività correnti nella terminologia utilizzata dalla Figc - pretendendo dai club che abbiano in cassa liquidità in grado di far fronte agli oneri immediati: a regime questo rapporto dovrà essere dello 0,6 su 1 (ora è dello 0,4), quindi i club dovranno essere sempre in grado di mobilitare subito 60 milioni su eventuali 100 milioni complessivi di spesa. Un indicatore che sostanzialmente impone alle società di avere gambe abbastanza robuste per poter reggere anche in caso di sofferenza senza dover alzare bandiera bianca nel corso della stagione come successo al Parma.Questo requisito si combina ad altri due parametri di salute finanziaria: i debiti non dovranno essere superiori di 1.5 volte i ricavi e il costo del lavoro per i giocatori non potrà mai superare l’80% del fatturato. Fino ad arrivare alla misura più draconiana: la necessità del pareggio di bilancio dalla stagione 2018-19 in poi. Da quel momento tutti i club dovranno i loro conti annuali chiudere senza “rosso”. Questa parte del fair play all’italiana lo rende per certi versi più rigido di quello europeo. Lo è di sicuro nella componente sanzionatoria: la punizione, a partire dalla Serie A 2017-18, sarà la mancata iscrizione al campionato, mentre in ambito Uefa le pene sono più graduali come hanno dimostrati i casi Inter, Roma, Paris Saint Germain e Manchester City risolti con multe o riduzione dei calciatori nelle liste Champions.In questo periodo transitorio in Italia invece scatterà il blocco del mercato nel caso in cui una società non riesca a condurre una campagna acquisti in equilibrio economico tra colpi in entrata e cessioni. Tavecchio aveva anticipato questo concetto intervenendo l’estate scorsa con una frase che suonava come una bacchettata ai club italiani tornati a spendere in modo massiccio sul mercato: «Mi meraviglio degli interventi fatti in campagna acquisti che hanno portato elementi tali da rendere l’Italia il paese che ha investito di più sul mercato», aveva detto il presidente Figc ad agosto con un’osservazione che sembrava evocare in particolare i milioni spesi da Inter e Milan (Kondogbia e Bacca pagati oltre 30 milioni i due colpi più costosi delle milanesi). Il fair play della Figc però ha un punto che lo rende più flessibile rispetto a quello di Nyon: ai proprietari sarà sempre consentito ricorrere a un aumento di capitale per far fronte alle perdite e consentire ai club di rispettare la disciplina finanziaria tricolore, una possibilità che in sede europea invece non è permessa perché l’idea di Platini era quella di un sistema calcio capace di auto-sostenersi con politiche lungimiranti. Un’ambizione a onor del vero parecchio frustrata dall’entrata in scena degli sceicchi a Parigi e Manchester (sponda City) e in precedenza da Abramovich al Chelsea, tre esempi che non vanno proprio nella direzione di una sana austerity. D’altronde la Figc non avrebbe potuto fare diversamente perché l’esclusione dalle Coppe lascia comunque in vita un club, mentre il semaforo rosso al via del campionato rappresenta una condanna all’inattività sportiva. Quindi era logico offrire un’ultima opportunità ai proprietari che hanno a disposizione risorse sufficienti per rimettere in riga i conti oppure consentire a presidenti emergenti di spendere per rendere più competitive squadre che già non fanno parte delle “big”. C’è ancora un periodo di assestamento a disposizione, ma i tempi non sono poi così larghi. In due anni i club di Serie A dovranno darsi da fare per far salire quella percentuale del 30% che in questo momento può far suonare un campanello d’allarme.
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