mercoledì 13 aprile 2022
Parla il presidente Aic, (Assocalciatori) ed ex campione d’Italia con la Samp di Vialli e Mancini: troppi stranieri? In Premier sono 12 i giovani nati nel club selezionabili obbligatori, da noi solo 8
Umberto Calcagno, classe 1970, presidente dell’Aic (Associazione italiana calciatori)

Umberto Calcagno, classe 1970, presidente dell’Aic (Associazione italiana calciatori) - .

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L’Aic, il sindacato dei calciatori italiani, è sempre in buone mani: grazie alla staffetta, avvenuta il 30 novembre 2020, tra l’ex presidente dimissionario Damiano Tommasi e il suo vicepresidente vicario, Umberto Calcagno Classe 1970, una carriera in campo quella di Calcagno consumata sui campi duri della Serie C, anni ’90, rimasti tali come dimostrano i fatti di Foggia («massima solidarietà ai calciatori del Catanzaro aggrediti in campo»). Prima però, c’era stato un avvio da apoteosi con la Samp, club in cui è cresciuto e di cui può fregiarsi anche del titolo di campione d’Italia, conquistato nella stagione 1990-’91 in cui collezionò 2 presenze in campionato e 4 in Coppa Italia. Ma siccome aveva capito presto che non si vive di solo calcio, ha seguito il suo piano B: laurea in Giurisprudenza e dal 2002 ha aperto lo studio legale da dove prende il via questa chiacchierata a 360° sulla nostra bella Repubblica fondata sul pallone.

Una Repubblica in crisi presidente Calcagno, dopo la mancata qualificazione della Nazionale ai Mondiali del Qatar 2022. Lei che ha giocato con Roberto Mancini, come giudica il partito dei detrattori convinti che «abbiamo vinto un Europeo soltanto grazie alla fortuna».

Beh – sorride – se è stato solo quello il fattore determinante, allora Mancini è uno nato con la camicia e non se l’è mai tolta... Negli sport di squadra si creano delle alchimie che a volte portano un gruppo alla massima esaltazione, come è accaduto a Euro 2020, e poi ci sono delle situazioni, magari irrazionali, come la sconfitta contro la Macedonia del Nord che rimettono tutto in discussione. Ma vincere, perdere e poi ripartire fa parte del gioco.

Un gioco complicato da noi per «colpa dei troppi stranieri », denunciano anche dallo staff azzurro.

In un mondo globalizzato appellarsi a questo criterio è una grave contraddizione, semmai dobbiamo migliorare le norme che agevolano l’utilizzo dei calciatori italiani selezionabili, perché i talenti ci sono, ma a vent’anni da noi spesso non hanno ancora debuttato in Serie A. Nelle liste della Premier League sono 12 i selezionabili obbligatori, da noi appena 8, con curricula meno stringenti per gli stranieri in entrata. Quando Mancini reclama il fatto che ha «pochi italiani disponibili » non dice mica un’eresia. Lippi nel 2006 vinse il Mondiale con una Serie A che contava il 65% di minutaggio dei calciatori italiani e il 35% stranieri. Oggi quel dato si è capovolto.

Si investe sugli stranieri perché, dicono, «gli italiani costano troppo».

La norma sugli impatriati applicata anche nel calcio è un grosso autogol. C’è stata venduta come la legge per il rientro dei “cervelli”, mentre è solo un escamotage fiscale: la società che prende un calciatore proveniente dall’estero versa la metà dell’Irpef rispetto a un tesserato interno. Non mi ha mai sfiorato il pensiero maldestro «prima gli italiani...», però i nostri calciatori, con le norme vigenti, sono oggettivamente discriminati.

Servono nuove norme in tal senso, così come si auspica la tanto agognata riforma dei campionati.

Ci sono due direttrici che lo impongono, la prima ragione è economica e la seconda, non meno importante, è per la tutela della salute dei calciatori. Tema questo affrontato con Fifpro: la pandemia ha messo a nudo le anomalie di calendari che oggi arrivano a far giognuno care a un top player fino a 70 partite l’anno, con 50 back to back con meno di quattro giorni tra una gara e l’altra. Molti di questi fanno 90mila km in una stagione solo per gli spostamenti con le rispettive nazionali. Numeri impressionanti che devono far riflettere. Lo spettacolo lo fa lo sport apicale e questo, con i suoi protagonisti, va preservato se vogliamo continuare a beneficiarne tutti.

C’è un calcio meno apicale, quello di C, che rischia il default: vedi caso Catania.

Le norme statali di cui si è avvalso il Catania per iscriversi al campionato rappresentano un unicum legato alla fase pandemica: si tratta di un epilogo triste ma fisiologico che consentirà, a bocce ferme, di capire l’importanza di norme più rigide che ci dicano chiaramente chi può permettersi di fare calcio a livello professionistico e chi no. Dispiace molto per i ragazzi del Catania, a livello sportivo avrebbero meritato di finire il campionato di C, per il bell’esempio che o- di loro ha dato fino all’ultimo.

I calciatori del Catania sono altri disoccupati del pallone ai quali l’Aic ora dovrà dare adeguato sostegno.

In questo, una grossa mano nel recente passato ce l’hanno data anche i ragazzi della Nazionale e la Figc, che con i 4 milioni di euro raccolti nell’ultimo quadriennio e il Fondo Salva Calcio hanno permesso di andare incontro ai 2mila tesserati in cassa integrazione o vittime di fideiussioni false. Come in tutti i sistemi lavorativi ed economici occorre stare sempre più attenti a non creare quel gap tra chi ha tanto e chi troppo poco, e per quest’ultimi vanno incrementati gli strumenti solidali. Gli stessi con cui la Onlus di Aic ora sta aiutando i calciatori ucraini e le loro famiglie sfollate per la guerra con la Russia.

Dicono che il grande male del calcio sono i procuratori, concorda?

Non credo siano loro il problema, ma norme non chiare e, soprattutto, mancanza di trasparenza. La nuova regolamentazione va in questo senso. Un problema grave invece, e che va affrontato una volta per tutte, è quello delle plusvalenze. Creano un beneficio immediato ai bilanci delle società, ma poi li appesantiscono con gli ammortamenti che fanno esplodere i costi delle società.

E per quanto attiene al calcio di base quali sono i nodi da sciogliere?

La perdita di tesserati registrata negli ultimi dieci anni: l’abbandono dell’attività agonistica in età adolescenziale è aumentato in maniera preoccupante, specie durante le due stagioni a singhiozzo della pandemia. Il dato positivo è che grazie a un’operazione capillare che stiamo svolgendo sul territorio nazionale abbiamo recuperato 100mila dei 200mila giovani tesserati persi durante l’emergenza Covid.

Chi continua a conquistare spazi, con grinta e tenacia, sono le donne del calcio italiano.

La nomina di Sara Gama, capitana della Juventus e della Nazionale, a vicepresidente di Aic è lo specchio di questo spirito e di una rinnovata espressione culturale. Dal 1° luglio il calcio femminile verrà finalmente riconosciuto professionistico e quest’estate ci saranno gli Europei che rappresenteranno un’altra vetrina importante per un movimento che è fatto di forze fresche, pensanti e preparate anche fuori dal campo di calcio: basta andare a vedere l’alta percentuale di laureate tra le calciatrici di vertice.

Tasto dolente questo per il calcio maschile, dove professionismo e studio sembrano ancora incompatibili.

Ma il dato è migliorato, anche grazie ai percorsi universitari specifici che abbiamo attivato negli ultimi anni. Solo il 5% degli ex calciatori riesce a vivere di calcio per tutta la vita, per questo, già durante la carriera, abbiamo sviluppato corsi di formazione per migliorare le capacità di ricollocamento nel mondo del lavoro. Sono diverse le aziende che hanno bisogno di figure professionali che nel proprio curriculum vantano esperienze fatte in un “gruppo-squadra”, un grande valore aggiunto per gli altri settori dove un ex calciatore può essere molto utile, perché spesso ha una maggiore attitudine alla gestione dello spirito competitivo e del fattore stress.

Lasciamoci con un’immagine “anti-stress”, anzi la più edificante del nostro calcio.

L’abbraccio e le lacrime di Mancini e Vialli dopo la vittoria degli Europei. Il senso dello sport e credo anche della vita è tutto lì.


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