martedì 7 gennaio 2014
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«Piazza Fontana ha cambiato tutto. Quel giorno il mondo si è rinchiuso su se stesso, quella bomba ha inghiottito il meglio del nostro Paese. La menzogna è diventata il sistema, la disinformazione la regola. Anche su di me. Non interessa a nessuno sapere veramente chi sono. Sono disposti a tutto per affermare la loro verità. Più cerchi il dialogo e più diventi una minaccia». È il drammatico sfogo del commissario Luigi Calabresi la sera prima di essere ucciso, il 17 maggio 1972. È una delle ultime scene della fiction Il Commissario in onda questa sera e domani su Rai1, prima della serie Gli anni spezzati, difficile ma riuscito tentativo del regista Graziano Diana di raccontare gli "anni di piombo". Calabresi (un ottimo e molto somigliante Emilio Solfrizzi) parla in auto col giovane poliziotto Claudio Boccia (un bravo e convincente Emanuele Bosi) personaggio di fantasia, ma con una storia molto simile a quella di tanti agenti di quegli anni.Proletario di Primavalle, periferia romana, e anche per questo piace al commissario - anche lui romano e di origini semplici - che lo vuole al suo fianco, quasi padre e figlio. E quel colloquio finale non è quindi un caso. Alla fine Calabresi gli chiede di farlo scendere per tornare a casa a piedi. «Voglio rimanere da solo». Già, «solo» parola centrale della storia insieme a «dialogo». La troviamo in un altro duro sfogo di Calabresi, questa volta ai suoi superiori. «Io sto subendo tutto questo senza una parola di solidarietà. Sono stufo di essere l’unico bersaglio». Il riferimento è alla campagna, mediatica e non solo, messa in piedi dal quotidiano Lotta continua e dai movimenti di estrema sinistra, ma anche da una parte del mondo intellettuale e politico della sinistra, per la morte in Questura dell’anarchico Giuseppe Pinelli (un intenso Paolo Calabresi) subito dopo la strage di piazza Fontana. La fiction, così come aveva già fatto il bel film di Marco Tullio Giordana Il romanzo di una strage, dedica molto spazio al rapporto tra commissario e anarchico. «Ci scambiavamo libri e idee», così lo ricorda Calabresi. Vuole capire, senza prevenzione. E questo non piace a suoi "nemici", non solo quelli in armi. Così dopo la strage, quando i superiori decidono che l’unica pista è quella anarchica (Calabresi capirà che invece è fascista e non solo), gli intimano di cambiare stile: «Dobbiamo sbrigarci. La stagione del dialogo è finita».Nella fiction c’è il Calabresi bravo investigatore sia a destra che a sinistra, ma c’è anche il Calabresi uomo, marito e padre. Come contrappunto delle scene sulle inchieste (molto cupe e buie, e con non pochi spezzoni di tg in bianco e nero) ci sono i momenti familiari, al fianco della moglie Gemma (la brava Luisa Ranieri). Sappiamo che la famiglia Calabresi non è mai stata molto convinta di una fiction, forse perché troppo presto, forse per difendere la propria intimità. Però proprio questa parte di vita familiare è trattata con delicatezza. Ci sono le commuoventi parole di papà Luigi al figlio Mario di appena due anni. «Chissà come sarai tu, perché forse papà non riuscirà a vederti quando sarai grande». Calabresi è cosciente dei rischi, soprattutto da quando il suo nome è stato affiancato dalla parola «assassino». Ma ha una risposta, come dice in un colloquio con padre Rotondi: «Quando mi chiedono come fai io rispondo che sono cristiano». Fede e impegno, come spiega ai suoi uomini, perché «per fare il nostro lavoro non basta lo stipendio, serve la passione». Frase facile? Buoni sentimenti? Certamente qualcuno definirà la fiction "politicamente non corretta", forse perché parte degli autori vengono dalla destra. Ma non c’è indulgenza né verso lo stragismo fascita né verso i depistaggi istituzionali (la ricostruzione delle responsabilità di Piazza Fontana non fa una grinza). E soprattutto ci sono gli ostacoli nei confronti di Calabresi, fino a creare quella solitudine che fu il migliore regalo a chi lo voleva colpire.
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