lunedì 4 novembre 2013
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Molto è stato scritto e continuerà di certo a essere scritto intorno alla vicenda umana e all’opera scientifica di Federico Caffè. Ciò non deve sorprendere perché siamo di fronte a una figura davvero privilegiata di maestro insigne e di studioso mephòrios, cioè di frontiera. È tale lo studioso che sa fondere, in modo armonico, saperi diversi – dall’etica alla storia, dalla politica all’economia – ma convergenti. Il grande tema del suo pensiero è quello dello sviluppo umano, inteso, letteralmente, come processo di liberazione dai “viluppi”, dai lacci di plurima natura (da quelli fisici a quelli culturali). Battersi per lo sviluppo, per Caffè, vuol dire allora battersi per l’allargamento degli spazi di libertà delle persone. Libertà intesa – si badi bene – non solo come assenza di vincoli, ma anche come possibilità concreta di scelta, ad esempio tra stili diversi di vita; tra modelli di sviluppo alternativi. Ecco perché non può bastare la metrica delle preferenze per valutare stati sociali alternativi; non è cioè più sufficiente misurare il grado in cui le preferenze individuali sono soddisfatte in una data configurazione socio-economica. Quel che in più si esige, oggi, è la libertà di poter scegliere. Di qui la necessità di arrivare a definire una qualche metrica delle opportunità, come Caffè – primo cultore italiano di economia del benessere – andava ripetendo fin dagli anni Cinquanta. Sappiamo che tra le tante questioni aperte che la modernità ci ha lasciato in eredità v’è quella che riguarda il dissidio irrisolto tra quelle linee di pensiero che, per portare alla luce importanti dinamiche delle nostre società, hanno finito col dissolvere la soggettività nel collettivo (si pensi al neo-marxismo o al neostrutturalismo) e quelle linee di pensiero che hanno bensì esaltato la soggettività, ma al prezzo di ridurre il sociale a mera aggregazione di preferenze individuali. È quest’ultimo l’esito cui giunge l’individualismo, perché confonde la socialità, che non è esclusiva degli umani dato che anche certe specie di animali vivono in società, con la socievolezza, che invece è tipica degli uomini. Il problema allora è quello di operare una saldatura fra queste due polarità, mostrando come, nelle condizioni storiche di oggi, sia falso vedere i termini che descrivono le coppie indipendenza-appartenenza, libertà-giustizia, efficienza-equità, autointeresse-solidarietà, come alternativi. È falso cioè pensare che ogni rafforzamento del senso di appartenenza debba essere visto come una riduzione dell’indipendenza della persona; ogni avanzamento sul fronte dell’efficienza come una minaccia all’equità; ogni miglioramento dell’interesse individuale come un affievolimento della solidarietà. Già in un saggio del 1943, Caffè scriveva: «Compito fondamentale e ideale della politica economica rimane pur sempre quello del simultaneo raggiungimento dei due non separabili obiettivi: massimo prodotto [efficienza] ed equa distribuzione». Non v’è chi non veda come l’attuale crisi di senso dell’economia dipenda in gran parte dalla circostanza che la scelta consumata nell’ultimo trentennio di non occuparsi più delle questioni del valore rende la disciplina particolarmente esposta allo sfruttamento ideologico dei suoi risultati. Ebbene, l’invito che, con coraggio, Caffè ha sempre rivolto è quello di pensare alla ripresa di una ricerca economica nella quale interesse conoscitivo e impegno civile tornassero a contaminarsi reciprocamente. «Trascurare – scrive – un carattere essenziale della scienza economica, cioè di essere motivated and purposive, significa semplicemente costruire un’altra scienza».Perché una parte dell’odierna teoria economica, per quanto raffinata ed elegante, è sterile, incapace cioè di far presa sulla realtà e quindi incapace di suggerire linee di azione volte al bene comune? La ragione principale è che, proprio a partire dal momento in cui globalizzazione e terza rivoluzione industriale hanno iniziato ad imprimere all’economia una direzione affatto nuova, si è consumata la separazione tra sfera dell’economico e sfera del sociale, attribuendo alla prima il compito di produrre ricchezza (senza eccessive preoccupazioni circa il modo in cui questo può avvenire, rendendo così l’etica un ingombro inutile, anzi dannoso), e alla seconda sfera il compito di provvedere alla sua redistribuzione. Un’ultima annotazione. Cosa ha da comunicare la grave e profonda crisi attuale agli studiosi di finanza e agli economisti in generale? Un duplice insegnamento. Primo, che quanto più spinta è la raffinatezza degli strumenti analitici (matematici ed econometrici) impiegati, tanto più alta deve essere la consapevolezza dei pericoli insiti nell’impiego pratico dei prodotti della nuova tecnofinanza. È questa irresponsabile mancanza di umiltà intellettuale – la quale è stata invece una delle grandi virtù di Caffè, che mai mancava di considerasi “un impenitente tappabuchi” – ad aver indotto non pochi economisti del mainstream, inclusi prestigiosi, ma poco saggi, premi Nobel, a guardare con supponenza chi si faceva portatore di prospettive diverse di discorso e soprattutto chi avanzava dubbi circa la plausibilità di certi assunti antropologici. La seconda grande lezione che dalla crisi arriva all’economia è quella di affrettare i tempi del superamento della cosiddetta “saggezza convenzionale”, secondo cui tutti gli agenti economici sarebbero mossi all’azione da un orientamento motivazionale di tipo egocentrico e auto-interessato. Oggi sappiamo che tale assunto è fattualmente falso: è certamente vero che, a seconda dei contesti e dei periodi storici, c’è una percentuale, più o meno alta, di soggetti il cui unico obiettivo è il perseguimento del self-interest, ma questa disposizione d’animo non descrive l’intero universo degli agenti economici. Eppure, i modelli della teoria della finanza continuano a postulare che gli agenti siano tutti homines oeconomici . La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: da quei modelli discendono direttive d’azione che vengono poi veicolate, in vario modo, al settore bancario e finanziario. Invero, i modelli matematico-finanziari non suggeriscono solamente linee di condotta; essi cambiano il mindset delle persone, come i risultati più recenti della ricerca sperimentale delle neuroscienze confermano ad abundantiam. E soprattutto quel certo modo di condurre l’analisi porta copiosa acqua al mulino di chi coltiva la «strategia dell’allarmismo economico» (1972), una strategia in omaggio alla quale i detentori del potere fanno ricorso a paure varie per fermare la capacità dei ceti più deboli di ottenere miglioramenti sul fronte dell’equità. Mai parole più vere e più preganti di queste sono state scritte per interpretare le recenti vicende italiane occasionate dalla crisi economico-finanziaria tuttora in corso.
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