giovedì 25 maggio 2017
Il medico di Pennac pubblica uno studio che vuole applicare un “occhio clinico” al capolavoro di Jan van Eyck. Ma depone lo strumento scientifico del dubbio inseguendo un improbabile fantastico
C'è troppa voglia di mistero negli Arnolfini di Postel
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Si potrebbe liquidare Il mistero Arnolfini con un semplice “a ciascuno il suo mestiere”, ma non basterebbe per un volume che sta avendo un riscontro che, a chi scrive, pare ben superiore al suo valore. Jean-Philippe Postel, l’autore di un libro (Skira, pagine 128, euro 16,00) che si propone di sciogliere l’enigma del capolavoro di Jan van Eyck conservato alla National Gallery di Londra, è un medico. Nello specifico, il medico di Daniel Pennac. Se l’autore, dotato di ottima penna, avesse deciso di scrivere un romanzo (e di una scrittura da “romanzo poliziesco” scrive non a torto Pennac, nella prefazione), non ci sarebbe nulla da obiettare: anzi, sarebbe stato ottimo. Ma poiché il libro si propone come uno studio scientifico, in quanto tale va affrontato. È Postel stesso a descriverlo come «l’applicazione del metodo dell’osservazione clinica a un’opera pittorica». Il problema è che, nonostante la minuzia dell’analisi, Postel non applica un metodo razionale e scientifico. Si innamora di un’idea e, da innamorato, è cieco a tutto ciò che le si oppone. E così facendo esclude o sottovaluta ogni ipotesi e spiegazione logica contraria al suo teorema, facendo leva sul desiderio e sull’evocazione. In estrema sintesi, secondo Postel questo dipinto rappresenta la visita del fantasma di una sposa al suo sposo, i quali scopriremo essere lo stesso van Eyck e una sua prima moglie sconosciuta alle (scarse) fonti.

Il testo procede per gradi, a partire dalla storia del quadro e le sue interpretazioni. Ma nonostante la presenza di note e un’ampia bibliografia, a Postel capita di non citare da dove cavi alcune letture: che la donna, ad esempio, possa non essere incinta (l’abito gonfio è della moda del tempo) lo dice, banalmente, anche il sito della National Gallery ma nel testo pare un’idea sua. Cita però lo studio del 2003 di Margaret Koster, la prima a ipotizzare – con argomenti interessanti – che si tratti dell’omaggio di un marito alla moglie morta, forse di parto: la candela accesa sul lampadario è dal lato dell’uomo, quella consumata dalla donna; attorno allo specchio le immagini in cui Cristo è vivo sono dalla parte di lui, di lei quelle in cui è morto. Ma quando Postel porta la propria lente dentro lo specchio, l’esame autoptico si trasforma in un volo dell’immaginazione, privo del freno del dubbio. Perché, si chiede, in quello specchio si riflette tutto fuorché il cagnolino ai piedi della coppia? Per spiegarlo Postel costruisce un discutibile sillogismo: «1) lo specchio non riflette che la realtà tangibile delle cose; 2) il cagnolino non si riflette nello specchio; 3) allora il cagnolino è al di fuori della realtà tangibile delle cose – è illusione, simulacro, visione, apparenza». Un fantasma, come la sua padrona, venuta a trovare il marito. Perché però lei, pure uno spettro, sia riflessa nello specchio, Postel non lo spiega. La prova che la donna venga dall’aldilà è sempre nello specchio: una grande macchia scura dove i due si danno la mano. Postel non ha dubbi: è il fumo di un fuoco nero. Secondo la tradizione, i fantasmi delle anime del Purgatorio portano con sé il fuoco della pena, capace di bruciare arti e cose. La sposa, dunque, è una revenante. Ma quella misteriosa bolla scura che apre le porte dell’aldilà, da cui Postel fa scaturire tutto il resto, è una realtà ben più banale: la manica dell’uomo. E sì che Postel l’allarme se lo lancia da solo. «Eppure è talmente forte il nostro bisogno di vedere ciò che ci aspettiamo di vedere…».

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