mercoledì 11 marzo 2015
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​Cento anni di gratitudine a quel genio silente di Alberto Burri. L’artista umbro, spesso umbratile, nasceva a Città di Castello un secolo fa, il 12 marzo 1915. La sua è stata la presenza-assenza più “traumatica” nella storia dell’arte contemporanea. Non a caso, il Guggenheim di New York che ne celebra il centenario (dal 9 ottobre, mostra a cura di Emily Braun) ha voluto che la sua antologica - opere dal 1943 al 1998 - si intitolasse “The trauma of painting”. «Creatività è l’abilità di vedere relazioni là dove non ne esistono ancora»: questa dello scrittore americano Thomas Disch ci pare la sintesi perfetta della genialità. E quella eccelsa, originale, di Burri si rivelò, anzi esplose, come una delle sue Combustioniproprio negli amati e odiati Stati Uniti: nel campo di concentramento di Hereford. Arruolato come medico militare, fu tratto prigioniero in Tunisia dagli americani e spedito, dall’agosto del ’43, nella desolata campagna texana. Fino all’inverno del ’46, il destino di Burri è stato quello di altri tremila soldati italiani che, sbarcati a New York, vennero ammassati sui vagoni di un treno e condotti in quel luogo in cui la sua condizione precipitò, quando decise di far parte della minoranza: i non collaborazionisti del “compound n. 4”. «Dalle gallette alle scatolette di carne, si passò a una misera razione di un’aringa e una pagnotta da dividere in otto. Da novanta chili calai fino a pesarne sessanta. Ci tolsero anche la carta per scrivere le lettere alle nostre famiglie...», è il racconto che fece ad Avvenire uno dei compagni di prigionia e di dissidenza, il giornalista Gaetano Tumiati (autore del romanzo Il busto di gesso). Il terzo illustre compagno di sventura di Burri, fu l’autore del Male oscuro, lo scrittore Giuseppe Berto. Nel campo americano, Berto, con la poca carta conservata, portò a termine l’autobiografico Fra la perduta gente che, al suo ritorno in patria, Leo Longanesi pubblicò con il titolo Il cielo è rosso. In copertina, nella ristampa edita da Rizzoli (nel 1969), spicca un acrilico di Burri che non era più il pittore figurativo dei giorni della prigionia «che – scrisse Tumiati – popola colline e uliveti di personaggi piccolissimi». Erano gli ingenui e disincantati paesaggi dell’anima, la Città di Castello a cui rimase sempre legato e dove mamma Carolina, maestra montessoriana, aveva quasi perso le speranze di riabbracciare quell’unico figlio rimasto (il fratello Vittorio era caduto in guerra). Dell’esperienza bellica, Burri avrebbe conservato le cicatrici indelebili dell’umiliazione nemica per quel rifiuto di collaborare («Se lei fosse caduto in mano ai tedeschi che cosa avrebbe fatto? Avrebbe collaborato? Io non posso, ho giurato fedeltà al Re», rispose all’ufficiale americano), ma anche il ricordo degli stenti e di una fame devastante che arginò cibandosi per mesi con l’erba del campo, fino a cucinarsi un «serpente a colazione». A salvarlo dal male oscuro che al ritorno avrebbe minato Berto e contagiato un’intera generazione di reduci (i disillusi del dopoguerra) fu la pittura. «Non feci altro che dipingere fino alla liberazione. E in quegli anni capii che io “dovevo” fare il pittore», disse in quella che rimane l’unica vera intervista-confessione rilasciata a Stefano Zorzi (“Parola di Burri”, Allemandi). Tra lo stupore amaro della madre, al ritorno ruppe il giuramento di Ippocrate per consacrare la sua esistenza interamente all’arte e alla ricerca di una nuova e più grande bellezza maturata nelle sue prigioni. Dall’America riporterà anche l’ispiratrice materia prima dei suoi futuri capolavori, i sacchi. «Erano buone tele che utilizzavano i nostri soldati in cucina per fare i sacchi dello zucchero e io poi spesso le trattavo con una preparazione di fondo colorata». Nel 1948, l’anno precedente all’apparizione del sacco di juta SZ1 Burri aveva dato scandalo presentando i Catrami. Un astrattismo inconcepibile per la critica militante dell’epoca, destabilizzata dalla mostra tenuta alla Galleria Margherita dove, a difesa di quel giovane appartato della bohème romana, c’erano gli scritti in catalogo dei suoi primi sostenitori: i poeti Libero De Libero e Leonardo Sinisgalli. Maestro di se stesso, febbrilmente all’opera tra Sacchi, Gobbi, Legni, Ferri, Combustioni plastiche, Cretti e Cellotex. «Con questo materiale Burri si adopera da impaziente austero banale chirurgo, quasi di razza alchimistica, a rimettere insieme avanzi detriti cascami di una trepidante realtà tuttavia ancora bruciante», scrive affascinato il poeta Emilio Villa di colui che Cesare Brandi, con la monografia del ’63, avrebbe riabilitato tra le patrie arti come «l’italiano senza retorica internazionale, perché è il più originale e il più autoctono». Ma a liberarlo dal pregiudizio fu quell’America sua ex carceriera. Già dal ’49 Christian Zervos, biografo di Picasso, informa dei Catrami di Burri il direttore del MoMa, James Johson Sweeney, il quale lo invitò a portare i Sacchi da inserire nella collettiva itinerante “Younger European Painters”. Con i Sacchi, Burri aveva già stregato Robert Rauschenberg in visita al suo studio e dopo il tragico sbarco da prigioniero, quello nel ’53 era l’approdo luminoso di un rivoluzionario dell’arte che si era già insediato alla Frumkin Gallery di Chicago, in cui, erano appena stati esposti gli illustri colleghi George Grosz, Otto Dix e Sebastian Matta. Prove d’autore che ne accrebbero l’orgoglio e fecero lievitare le quotazioni delle opere, subito elevate, per sua imposizione (nel 2011 Sotheby di Londra ha battuto Combustione Legno a 3,63 milioni di euro) e senza sconti per nessuno. Con il proverbiale ghigno sarcastico ricordava ai pochi amici fidati: «I migliori Burri stanno a casa mia». Concedeva il privilegio della vendita delle opere solo a chi intuiva che le avrebbe amate quanto lui. Per questo, all’avvocato Gianni Agnelli, planato in elicottero a Città di Castello per acquistare un Sacco si presentò simulando il mal di schiena, congedandolo con un falso e cortese: «Mi dispiace Avvocato… Se solo fosse venuto trent’anni fa, l’avrebbe acquistato per pochi soldi: adesso i sacchi li ho dati tutti». Ironico, tagliente, orgoglioso, «ma anche umile e indifferente al successo», ricorda una delle fedelissime della prima ora, la critica d’arte Lorenza Trucchi. Come per Luciano Bianciardi, anche per Burri quel successo, che arrivò comunque tardivo, era semplicemente il participio passato di succedere. Riconoscenza e sudditanza morale solo per le radici ancorate nel suo luogo dell’anima, il ventre materno di Città di Castello. È lì che la sua poderosa poetica continua a parlare da sé («Le parole non mi sono d’aiuto quando provo a parlare della pittura»). Le sue opere “dialogano” dalle pareti degli hangar, gli ex Seccatoi acquistati per portare a termine un Cretto gigante, ma mai quanto quello struggente di Gibellina (90mila metri quadrati), monumento alle vittime del terremoto del Belice (1968). Il resto della Collezione Burri è nello storico Palazzo Albizzini. Qui dove un tempo era custodito “Lo Sposalizio della Vergine” di Raffaello, oggi arrivano genti da ogni parte del mondo per ammirare estasiati le tracce inconfondibili lasciate da quel genio, che per Francesco Arcangeli era «un volto anticamente, quasi ciecamente italiano». Prima di Annottarsi per sempre (morì il 13 febbraio del 1995 assistito dalla moglie, la coreografa americana Minsa Craig) aveva predetto: «Se vorranno vedere i “i Burri” dovranno passare tutti da Città di Castello». Da lì passano ogni giorno gli americani e passeranno ancora tutti coloro che hanno compreso il genio di Burri, l’arcitaliano che nell’arte ha realizzato a pieno il postulato di Longanesi: «Un’idea che non trova posto a sedere è capace di fare la rivoluzione».
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