domenica 8 marzo 2015
​Il difensore argentino del Genoa racconta i suoi 11 anni italiani. «La malattia di mia figlia e la fede mi hanno reso un uomo migliore». E «Gasperini somiglia tanto a Mourinho. L'Europa è un sogno da coltivare»
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GENOVA - C'è la “pasta del capitano” nel sorriso e nell’anima di Nicolàs Burdisso. È lui l’hombre vertical del Genoa del presidente Preziosi, al quale, a star dietro alla poesia del genoano Fabrizio De Andrè - ha detto «sì», non per dar retta al denaro, ma all’amore e al cielo sì. Quattro, i punti terreni,  «famiglia, calcio, letteratura e rock and roll», nel cammino luminoso del 33enne argentino di Altos de Chipión: «1.500 abitanti nella Pampa», sconfinata, come la sua umanità. Primo, la famiglia: «Devo tutto a mamma Beatrice e papà Enio, maestro di calcio per me e mio fratello Guillermo (26 anni centrale difensivo del Boca Juniors). Siamo italiani  d’Argentina, bisnonni della provincia di Cuneo, emigrati nel 1904». Calcio «11 anni d’Italia e ne farò ancora altri se Dio vorrà». Letteratura: «Preferisco l’ironico Fontanarrosa a Soriano. Ho letto tutti i grandi: Borges, Bioy Casares, Cortazar, Ernesto Sabato». Rock and roll: «Fa parte della nostra cultura. Le band argentine dopo la guerra delle Falkland (1982) non cantano più in inglese. I Los Piojos o artisti del calibro di Charly Garcia, il nostro Vasco Rossi, nei concerti vengono seguiti da fan che rivaleggiano tra di loro come gli ultrà della Bombonera». Il mitico stadio del Boca Juniors, in cui Burdisso ha debuttato 18enne, conquistando due titoli mondiali per club (2002 e 2003, che compongono il tris iridato con quello vinto con la nazionale Under 20). Oro olimpico, «con Carlitos Tevez», ad Atene nel 2004, poi l’approdo nell’Inter degli invincibili (4 scudetti dal 2005 al 2009). Quattro anni e mezzo alla Roma e adesso, eccolo alla seconda stagione nel Genoa, in cui, con la partenza di Luca Antonelli (al Milan), è passata a lui la fascia da capitano. A chi si ispira come capitano del Genoa? «A quelli che ho avuto. Ho iniziato all’Inter con un modello, non solo calcistico, come Javier Zanetti. Alla Roma ho trovato in Francesco Totti un leader fuori e dentro il campo. Questa “fascia” al Genoa, la considero un premio alla carriera. La mia filosofia è sempre stata la stessa: aiutare i compagni, specie i più giovani, e usare il calcio per migliorarmi, anche come persona». Dieci anni fa lei ebbe una “svolta esistenziale”: sei mesi di stop per seguire la sua bambina malata di leucemia. «Eravamo appena arrivati a Milano e con mia moglie Belen pensammo di affrontare il problema della nostra primogenita, Angelina, con l’appoggio delle famiglie, quindi tornammo a Buenos Aires per l’intervento. Sono stati mesi difficili che hanno cambiato radicalmente la mia prospettiva della vita. In una corsia d’ospedale ho imparato ad apprezzare l’attesa, la pazienza e l’importanza dei piccoli gesti e dei minimi miglioramenti: tutte cose condivise con altri genitori di bambini malati...». Oggi Angelina come sta? «Ha 12 anni, sta benissimo, e con i suoi fratellini, Facundo ed Emilia, sono il nostro tesoro. Quell’esperienza me la porterò dentro per sempre, per questo continuo ad essere molto vicino all’ospedale San Gerardo di Monza e al Bambin Gesù di Roma. I medici e la preghiera che è da sempre il mio “rifugio”, mi hanno dato la certezza che con l’aiuto di Dio tutto sarebbe finito bene». Una fede fortissima la sua, ora rinnovata dalla vicinanza con il “Papa argentino” e tifoso del San Lorenzo. «Ho cominciato nel Newell’s e poi con il Boca Juniors, il San Lorenzo l’ho sempre sfidato e battuto, quando potevo... – sorride –. Da ragazzino a Buenos Aires mi parlava sempre di lui un prete che mi fece fare la Via Crucis che terminava nella cattedrale del vescovo Bergoglio. Finalmente lo scorso anno l’ho incontrato con la mia famiglia. Ci siamo parlati dopo la Messa delle 7 del mattino in Santa Marta e le parole di papa Francesco mi hanno fatto uscire da lì ancora più forte». Qual è stato l’uomo più forte che ha incontrato su un campo di calcio? «Maradona. L’ho avuto come ct, e penso che nel 2010 fu sfortunato, trovò una Seleccion  in costruzione. Ogni argentino conserverà per sempre nella memoria l’immagine di Maradona che ai Mondiali di Mexico ’86, batte l’Inghilterra e sventola in mezzo al campo la nostra bandiera a ricordargli della guerra delle Falkland... Messi ha vinto e vincerà tanti palloni d’oro e ha già segnato più gol di lui, ma “El Diego” per carisma, resterà unico e irripetibile nella storia dell’Argentina». Un uomo speciale, anzi lo “Special One” è quello che ha avuto anche come allenatore all’Inter. «Mourinho, “tituli” a parte, è il tecnico più completo che ci sia: motivatore e comunicatore eccezionale. Poi, il Mourinho dentro lo spogliatoio è molto più credibile e umano rispetto al personaggio costruito dalla stampa». Quanto le è dispiaciuto non aver preso parte alla mitica stagione del “triplete” nerazzurro? «Dopo cinque anni di Inter era giusto cambiare, e poi giocare titolare nella Roma di Spalletti mi garantiva una maglia con l’Argentina ai Mondiali del Sudafrica. Un pezzo di quel “triplete” a Roma l’ho visto passare sotto i miei occhi: scudetto perso all’ultima giornata e sconfitta nella finale di Coppa Italia. Al tempo stesso sono stato felice per i miei ex compagni argentini, Zanetti, Samuel, Milito, Cambiasso...». Tutti allievi del Burdisso “maestro di chitarra”. «Ho cominciato con l’insegnarla a Veron e a Samuel, gli altri sono venuti dietro. Cambiasso però ha smesso dopo la prima lezione – sorride –: la domenica dopo si infortunò e disse che la mia chitarra gli portava jella». Parliamo della sua nuova “fortuna”, che è poi quella del Genoa. «Questa è una società dove chi arriva si inserisce subito e trova l’ambiente giusto per fare bene. La nostra forza è un allenatore come Gasperini: mi ricorda tanto Mourinho, nella cura maniacale dei dettagli e soprattutto per la capacità di rischiare, sempre. Il Genoa non pensa mai a conservare il risultato e così dà libero sfogo alla creatività dei suoi campioni». Quanti ce ne sono di “campioni” nella rosa del Grifone? «Perin in porta ormai gioca da campione. Perotti ha dei colpi di altissima scuola, Nyang, arrivato  dal Milan, sta maturando in fretta e ha mezzi fisici e tecnici impressionanti. Bertolacci è pronto per giocare in qualsiasi grande club, italiano e europeo. Poi chissà, da qui a poco potrebbero esplodere altri predestinati». Forse è un predestinato anche Burdisso: campione sbocciato nella Boca dei “genovesi” per diventare capitano del Genoa. «Era tutto scritto. Prima del derby con la Samp ho ricevuto una lettera firmata dai tifosi del Genoa club di Buenos Aires che mi ringraziavano. Alcuni di loro li avevo conosciuti nel ritiro dell’Argentina quando vennero a salutare Milito. Rimasi impressionato: mai visto un calore e una passione del genere per una squadra italiana». Quei tifosi, al di qua e al di là dell’Oceano, adesso vi chiedono di riportare il Genoa in Europa. «È un sogno che vogliamo coltivare fino in fondo. Non sarà facile. Tutti non fanno che ripetere che la Serie A è in crisi, ma cinque formazioni agli ottavi di Europa League è il segnale che qualcosa sta cambiando. Forse, solo voi italiani non ve ne siete ancora accorti».

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