venerdì 15 febbraio 2013
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Lo scenario è quello di un “mondo piccolo” belga. Siamo a metà degli anni 50 del secolo scorso, in un borgo rurale nella regione della Gaume, a sud del Paese. Al centro una famiglia di sette figli, di condizioni sociali modeste, ma non povera. Una famiglia religiosissima, che vive di quella fede che permea tutto, riti privati e collettivi. Il capo famiglia, gran lavoratore, si è risposato dopo essere rimasto vedovo. La seconda moglie è una casalinga dagli occhi blu e freddi, una figura algida nel cui vissuto si intravedono problemi di umore e di depressione. La terzogenita, Danielle, sensibile e irrequieta, si sente sola e incompresa, ferita soprattutto dalla distanza arcigna della madre. Trova conforto rifugiandosi ai piedi di un crocifisso a fianco di una piccola e isolata cappella di campagna, dove si inginocchia e si confida con Gesù. La vita di Danielle cambia per sempre, però, il giorno in cui arriva in parrocchia il nuovo curato. Poco più che trentenne, in quegli anni che precedono di poco il Concilio don R. può essere definito un novatore: esibisce il clergyman al posto della talare, decide di sospendere la tradizionale visita alle case dei parrocchiani, si presenta con un piglio estraneo alle abitudini sonnolente del posto. È un prete attivo, un organizzatore, ha una personalità da protagonista, macchiata solo da un’inclinazione alla collera e da qualche fissazione, come quella di chiudere col chiavistello il portone della chiesa a Messa iniziata, per punire i ritardatari. In realtà, la sua è una personalità disturbata e doppia. Don R. non ci metterà molto a intuire la vulnerabilità, il bisogno di un amico da parte della spaesata ragazzina così attiva in parrocchia: facendola sentire una prediletta, la attirerà nella sua intimità fino ad abusarne sessualmente.Danielle Scherer oggi ha 66 anni. Nel 2010, mentre in Belgio montava più che altrove la polemica sugli abusi commessi da membri del clero (fino alla paranoia, con l’incredibile e oltraggiosa perquisizione delle tombe dei cardinali Van Roey e Suenens, nell’ambito di un’operazione di polizia contro la pedofilia) ha deciso di scrivere la sua storia e di inviare il manoscritto a Gabriele Ringlet, un sacerdote, artista e intellettuale molto conosciuto in patria. Una volta letto il testo, Ringlet ha convinto l’autrice a riscriverlo in prima persona e a farlo pubblicare. Ha usato quella testimonianza anche in un suo intervento alla commissione speciale della Camera sul «trattamento di abusi sessuali e di pedofilia nell’ambito di una relazione di potere, in particolare all’interno della Chiesa».
La scelta dell’editrice San Paolo di dare alle stampe il tutto anche in italiano (Nessuno ti crederà, pagine 216, euro 14,90) è coraggiosa. Del tema degli abusi sessuali si è parlato a iosa negli ultimi anni, nella Chiesa sono cadute le resistenze a guardarlo in faccia in tutta la sua portata, ma resta per molti una fonte di imbarazzo, se non di vergogna, o di fastidio per il fianco che presta alle campagne anticlericali. Se c’è tuttavia uno scritto che vale la pena leggere per capire meglio il problema dal di dentro, uno scritto scevro da quello che sarebbe un ben comprensibile rancore nei confronti della Chiesa, è questo. Il racconto lucido di una persona per sempre segnata ma guarita, grazie a un matrimonio provvidenziale e a una terapia psicologica durata decenni. La Scherer tenta innanzitutto di spiegare come una ragazzina possa essere abusata a partire dall’età di 12/13 anni fino alla maggiore età e oltre, quando in teoria si ha la forza per dire “no” e liberarsi dal proprio “sequestratore”. È quella dipendenza che riguarda innumerevoli vittime, un essere “infiocinati” da un arpione di cui non ci si riesce a liberare, il che spesso lascia attoniti chi pensa che una dipendenza del genere possa riguardare solo la fragilità dell’infanzia. Corruptio optimi pessima. Il racconto parla anche di come il male possa insinuarsi nell’esercizio delle funzioni più sante e volgere il sacro in una forza blasfema e oppressiva. Come quando don R. arriva a rifiutare pubblicamente la comunione a Danielle, nel momento in cui lei cerca di allontanarlo dalla sua vita. E parla infine di come un atteggiamento secolare della Chiesa ispirato alla prudenza (non divulgare la notizia del male per non scandalizzare i semplici e per arginare il contagio psichico che il peccato porta con sé) possa essere pervertito, diventando una difesa mondana del “buon nome” dell’Istituzione, con il suo esito spicciolo che è l’omertà.
Danielle tenta più volte chiedere aiuto: a una religiosa, a un professore del collegio, a un confessore di passaggio in parrocchia… l’ascolto è spesso partecipe, ma le risposte vanno tutte in una sola direzione: non quella della denuncia, ma del "passare oltre”, del «non dire nulla a nessuno», del «sei tu che ti devi allontanare». «Scrivendo queste righe – sono le parole dell’autrice – mi sorprendo a piangere, ma sono lacrime salutari, benefiche, lacrime di quiete e consolazione. Sono lacrime che mi fanno deporre il passato e aprire gli occhi su tutte le cose meravigliose che la vita mi ha regalato… Sogno che tutta la sofferenza delle vittime di loschi predatori, chiunque essi siano, si trasformi in un’energia costruttiva capace di rendere giustizia e di punire, certamente, ma anche di riparare e guarire».
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