venerdì 27 novembre 2020
"El Diego" esposto dove nel 1986 era entrato da campione del mondo accolto dall’allora presidente Alfonsìn. Ora attorno alla bara si assiste alla processione del suo popolo straziato
Tifosi a Buenos Aires piangono il campione

Tifosi a Buenos Aires piangono il campione - Ansa / Afp

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Diego es familia. Diego es pueblo. Lo dice una madre all’uscita dalla Casa Rosada, dopo aver appoggiato una mano gracile e nodosa sulla bara chiusa. «Ci rappresentava, e parlava per noi», le fa eco una signora che cammina dietro di lei con gli occhi umidi, un figlio gordito per mano e un altro appeso al collo, silenzioso. Lo sguardo serio ma sereno dei bambini portati ai funerali. Chissà quando glielo racconteranno, da grande. «Siamo qui per ringraziarti e per chiederti scusa, per quello che non abbiamo saputo dirti» dice un altro ragazzo alto e flaco che potrebbe anche assomigliare ad Angel Di Maria. Ha il volto giovane e segnato, un sorriso amaro e disastrato. Guarda noi, eppure parla con Lui.

É una processione continua di facce umili, quella che dalle 6 di mattina pesta il così detto microcentro di Buenos Aires, la city sede di banche e governi. Il simbolo del potere economico e politico che per generazioni i poveri li ha emarginati e aizzati. Gettandogli il pesce senza mai insegnargli a pescare, ripetono gli altri, quelli che nei poveri (e nel welfare peronista) hanno sempre visto la zavorra di un paese che avrebbe avuto tutto per essere una potenza, e invece.

É uno dei grandi classici d’Argentina: i rimpianti, i rimorsi, il tormento di ciò che sarebbe potuto essere, la nostalgia di quello che non fu. Sarà pur vero che la Storia non si fa con i se, come dicono, ma non qui. «Se io fossi Maradona» cantava Manu Chao, in quel pezzo struggente che ripete la vida es una tombola, de noche y de dia.

A mezzogiorno di giovedì 26 novembre a Plaza di Mayo regna un ordine inaspettato, insolito. Una calma esausta e forse inevitabile, pensando agli sfoghi, ai pianti e alle sirene della notte precedente. Obelisco, La Boca, La Paternal, Villa Fiorito: ogni stazione dell’odissea maradoniana ha vissuto il suo lutto fatto di abbracci, pianti, camisetas sudate e vino in cartone. Poi la tempesta, la seconda dopo quella che martedì voleva forse annunciare l’irreparabile, il vero cataclisma. «La perdita di un idolo per noi è una sensazione di debolezza» dirà nel frattempo Marcelo Bielsa, sintetico e diretto come non mai nell’esprimere il sentimento di una patria che da vent’anni gli riserva più nemici che adulatori.

Il corpo di Maradona è entrato alla Casa Rosada all’una di notte. Saranno gli unici momenti in cui la bara rimarrà aperta. Nella sala intitolata agli indigeni (i Popoli Originari, come vuole il bon ton politico), arrivano familiari, amici più stretti ed ex compagni della Selección mondiale dell’86, scesi da un pullman dell'AFA. Sergio Goycoechea, Oscar Ruggeri, Jorge Burruchaga, Oscar Garré, Nery Pumpido e Ricardo Giusti. Manca Carlos Salvador Bilardo, tenuto all’oscuro di tutto chissà per quanto. Si dice che sulla salma di Diego, oltre alla bandiera argentina, ci fossero una camiseta albiceleste e una del Boca. Un’altra maglia, quella rossa dell’Argentinos Juniors, la lascerà sulla bara già chiusa il Presidente della Repubblica Alberto Fernández. Presenti anche gli ex cebollitas, i compagni di squadra dell’epoca in cui la felicità era calciare un pallone a Villa Fiorito, sognando la prima squadra del Bicho Colorado.

Poi arriva il turno dei soldati presenti al naufragio sudafricano del 2010: Gabriel Heinze, Javier Mascherano (il jefecito che ha da poco dato l’addio al calcio giocato), Maxi Rodriguez, Mariano Andujar, Carlos Tevez, e pure Pablo Daniel Osvaldo. Rocio Oliva, l’ultima giovane fidanzata del Diez, non viene fatta entrare per volere della famiglia. «Mi hanno detto di venire alle 7 di mattina con tutta la gente. Sono stata l’ultima donna di Diego e nessuno lo vuol capire. Ero l’unica donna che Diego voleva vedere».

Con il sole già alto, si ingrossa il fiume di gente lungo l’Avenida di Mayo che porta in piazza. La plaza che ha visto scorrere alcuni dei momenti più duri e segnanti della tortuosa e sofferta pellicola argentina. Los descamisados, gli scamiciati di Evita, con i piedi a mollo nella fontana un 17 di ottobre del 1945, chiedendo il ritorno del General Perón, che abbandona il potere 10 anni dopo, con le bombe sganciate a tradimento sui civili. Tra gli aviatori carnefici, anche l’Osvaldo Cacciatore poi governatore di Buenos Aires durante l’ultima dittatura militare, che farà radere al suolo la villa miseria di René Houseman, a due passi dallo stadio del River Plate, e popolerà di sfollati il Fuerte Apache di Carlos Tévez. E poi la folla cantando «chi non salta è un inglese nel 1982» e il ritorno della democrazia nel 1983, con il presidente radicale Ricardo Alfonsìn.

É lui, nel 1986, ad aprire le porte della Casa Rosada perchè Diego e la banda campione del mondo possano salutare la folla come erano soliti farlo i capi di stato. Solo per alcuni di loro la camera ardente verrà allestita proprio lì, dove è oggi. É successo con Nestor Kirchner nel 2010, ed era successo nel 1995 con Juan Manuel Fangio. Succede oggi con Diego, e sembra impossibile che alle 4 del pomeriggio qualcuno decida di chiudere le porte per poi sepellirlo.

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