sabato 2 maggio 2015
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C’è sempre una zona oscura nella vita di ogni uomo, e quella del più letterario dei nostri cantori di sport, Gianni Brera, si annida negli anni della Resistenza. Il tempo della «partecipazione alla guerra fino al vischioso rapporto con il fascismo repubblicano pavese, la scelta infine nel maggio 1944, della guerra partigiana sono temi che Brera non ha mai affrontato di buon grado», scrive lo storico del giornalismo italiano Franco Contorbia.E allora, ad illuminare questo «cono d’ombra» ha pensato un altro storico d’essai della materia sportiva, Sergio Giuntini, autore di una perla saggistica, fin dal titolo dagli echi fenogliani, Il partigiano Gianni (Sedizioni). L’approdo alla lotta partigiana del “Gioânnbrerafucarlo”, il figlio del sarto e barbiere socialista di San Zenone Po, è stata assai impervia, di certo una scelta meno netta rispetto a quella de “Il partigiano Johnny”. Nel partigiano Gianni, si ritrovano gli ideali, le speranze e le fragilità che ha caratterizzato la generazione dei giovani della seconda guerra mondiale (Brera era nato nel 1919, l’8 settembre). Il gran Gioânn, partito sottotenente di fanteria, poi si arruolò nel corpo «più intriso di fascismo»: paracadutista della Folgore, di cui fu ufficio stampa nella scuola di Tarquinia. Come la maggior parte dei suoi coetanei era affascinato dalla figura carismatica di Mussolini che, anche in età matura, continuerà a reputare un «magnifico giornalista; tanto energico e bravo che, in breve ha messo sotto tutti i mezzi e brulicanti intorno e contro di lui». Perciò, è con ardito entusiasmo che nel 1941 il giovane Brera firmò il primo articolo, “Tre tuffi e tre lanci e sarai paracadutista”, sul Popolo d’Italia, il quotidiano fondato dal Duce.Quel giornale che corroborava l’autostima del milite non ancora noto, ma predestinato al mestiere di giornalista («non si separava mai dalla macchina da scrivere»), divenne la sua palestra, in cui mandò alle stampe “Giarabub”. Una serie di pezzi sulla battaglia omonima combattuta nell’oasi libica, tra il 1940-’41, (le truppe italiane sconfitte da quelle inglesi), ripresi dal racconto che gli fece «uno che c’era», il portaferiti Terzo Cova. Opera prima - di 122 pagine - che, secondo il professor Angelo Stella dell’Università di Pavia, «rimane il più bel libro che Gianni Brera abbia mai scritto». Fin qui, pare di assistere alla trama del giovane intellettuale, già apocalittico nello stile e pienamente integrato con il regime. Un percorso condiviso da illustri esponenti dell’intellighentia italica: Giuseppe Ungaretti, Dario Fo e i colleghi della carta stampata Indro Montanelli e Enzo Biagi. Vittime più o meno consapevoli del «consenso passivo al regime» che, per alcuni di loro è sconfinato nel ruolo, forse difficilmente evitabile, del repubblichino. Al bivio della «zona grigia», Brera continuò ad assecondare la sua passione per la scrittura dalle colonne del trisettimanale il Popolo Repubblicano. La vena mussoliniana lo condurrà dall’estasi nazionalista, poi al tormento. Da direttore del periodico locale fascista firmò solo i quattro numeri di marzo, ma continuò a scrivere fino al 4 giugno. «L’imperdonabile parentesi», sottolinea Giuntini, genererà quel «senso di colpa» che nell’immediato gli fece prendere la via dell’esilio, in Svizzera, ma che nel tempo diventerà l’oscuro e ineluttabile «senso di colpa» da cui liberarsi. Nel campo di internamento di Balerna la svolta partigiana, Brera conobbe Attilio Bonacina (detto “Catilina”) che lo introdusse nell’universo dei combattenti della Val d’Ossola. L’ingresso nella 83ª Brigata Comoli (in omaggio a Luigi Comoli fucilato dai fascisti nel ’44, nella piazza di Forno) non fu lieve come la terra che, nei coccodrilli breriani, «accarezza» i caduti. Subì un durissimo processo per i suoi trascorsi fascisti e fu ad un passo dalla morte. «Volevano fucilarmi, e avevano ragione: mi ha salvato Italo Pietra», raccontava lo stesso Brera ricordando il suo direttore de Il Giorno, l’“Edoardo”, partigiano nell’Oltrepò Pavese. Ma anche su questo presunto salvataggio di Pietra calano nubi dense. Storicamente accertato, è l’essere uscito indenne dal processo che gli venne intentato all’Albergo Terminus e la relativa condanna capitale. Interrogato da Giulio Seniga, (“Nino”), dal temuto “Cino” Moscatelli, «il ciclista della Valsesia» (l’epiteto coniato da Brera) ottenne l’ammissione alla Brigata Comoli con un perentorio «Fait» («Fatto»). A testa bassa, il neocombattente per la Resistenza non modificò neppure il suo nome di battaglia, per i partigiani dell’Ossola rimase il “Gianni”. Il talento giornalistico traslocò al servizio dei “Panorami operativi”, il suo primo saggio, a firma di “Gian del Po”, lo pseudonimo dell’aspirante professore di storia all’Università. Ambizione vanificata nonostante una laurea in lettere (tesi: L’utopia di Tommaso Moro), da colui che, comunque, poi è diventato il massimo “storiografo” del nostro sport e che, durante il conflitto bellico, con piglio da narratore in erba, annotò le imprese eroiche che lo videro protagonista. Un impegno autentico, in prima linea, che lo salverà dall’accusa infamante di «mago del doppio gioco», segnalazione di Sandro Chiodi, l’ex compagno di paracadutismo, ad Aldo Aniasi - il futuro ministro e sindaco di Milano - l’“Iso” della II Divisione d’Assalto. Iso e il partigiano Gianni tra il 6 e il 23 aprile del 1945 con i loro compagni salveranno le provvidenziali centrali idroelettriche della Val d’Ossola che fornivano un sesto della produzione energetica nazionale e impediranno ai tedeschi di far saltare il traforo del Sempione.Azioni in cui Brera rimase ferito e le cicatrici erano ancora visibili quando, il 2 luglio 1945, chiamato dal suo “maestro” Bruno Roghi mise piede nella redazione della rediviva Gazzetta dello Sport. «Recava sul viso “partigiano” come una zanna la fucilata di un tedesco, nel corso di un rastrellamento, gli aveva inciso un piccolo gradino sul naso», ricordava l’amico e collega Mario Fossati, alias il “Generale inverno” per aver partecipato alla ritirata di Russia. Quelle ferite e i ricordi della sua personale “seconda guerra” divennero pagine di altissima narrativa nel romanzo “Naso bugiardo” (ripubblicato come “La ballata del pugile suonato”) in cui il suo alter ego diventa il pugile Claudio “Gugia” Orsini. Dieci anni dopo Fenoglio, con “Naso bugiardo” Brera pubblica il suo partigiano Johnny. «Libro che mi ha fatto grandissima impressione. Che grosso scrittore abbiamo perduto», scrive alludendo allo scrittore di Alba in una lettera del ’74 indirizzata a Maria Corti. Di quei giorni di Resistenza, oltre al senso di colpa, rimarranno i segni premonitori di una poetica insuperata nel giornalismo sportivo. A cominciare dalle “antinomastiche”: «I vari compagni partigiani Iso, Catilina, Nino e Cino – conclude Giuntini –, sui campi di battaglia del pallone in fondo sono diventati l’Abatino (Rivera) Rombo di Tuono (Riva), Bonimba (Boninsegna) e Conileone (Altafini)». Eroi pacifici di chi, a guerra finita, settant’anni fa dalle pagine della Gazzetta lanciava l’accorato appello al popolo italiano: «Torni il mossiere a sparare i suoi colpi per il via. Ma questa volta a salve, buon Dio: finalmente dei colpi a salve».
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