mercoledì 16 giugno 2021
L’anima del Canzoniere del Lazio si racconta e torna sul palco con l’album “Mannaggia a me”: «La cultura folk è nata con Portelli, ma io devo tanto a Giovanna Marini. Bob Dylan è il mio Virgilio»
Il cantautore Piero Brega fondatore del Canzoniere del Lazio architetto e cantautore ora torna dopo 12 anni dall’ultimo disco con l’album “Mannaggia a me”

Il cantautore Piero Brega fondatore del Canzoniere del Lazio architetto e cantautore ora torna dopo 12 anni dall’ultimo disco con l’album “Mannaggia a me”

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Roma capoccia musicale, 1971. Negli stessi giorni in cui quattro ragazzi scalcagnati (Bassignano, Lo Cascio, De Gregori e Venditti) «con la chitarra e il pianoforte sulla spalla» partivano dalla magica tana artistica del Folk Studio alla conquista del mondo, altri quattro ragazzi come loro setacciavano l’Agro Pontino e le campagne appena fuori la capitale, alla ricerca della verace e primordiale canzone popolare Erano i ragazzi del Canzoniere del Lazio, gruppo folk fondato da Piero Brega, voce solista, Francesco Giannattasio, organetto e percussioni, Sara Modigliani, voce e flauto, e Carlo Siliotto, violino, chitarra e mandolino. Un piccolo laboratorio di antropologia musicale itinerante che, nel 1973, pubblicò Quando nascesti tune il primo album della loro trilogia (gli altri due vinili ormai introvabili sono: Lassa sta’ la me creatura e Spirito bono). Un’esperienza durata fino alla fine degli anni ’70, poi l’oblio, tranne per quei pochi appassionati e studiosi del Canzoniere del Lazio, appoggiati fin dagli esordi dalla loro «madrina», Giovanna Marini. Ed è la stessa Marini che ora ci guida alla scoperta del nuovo album di Piero Brega che dopo dodici anni di silenzio, dal suo rifugio umbro di Attigliano, ha appena composto e pubblicato un disco fresco quanto poetico, Mannaggia a me (Edizioni Squilibri). «La prima parte del disco è piena, fino al vecchio marinaio (il brano Sono un vecchio marinaio), è molto bella, molto liscia e molto sciolta. Nella seconda parte c’è una crescita di tipo melodico e anche armonico. Crescete a forza di raccontare», scrive in prefazione all’album Giovanna Marini che confessa: «È la prima volta che sento un disco di canzoni tutto intero».

Ed è sulla scia della Marini che ebbe inizio anche la sua, la vostra storia musicale.

Giovanna è stata fondamentale per il nostro approccio alla musica folk. Lei è la Poetessa che ci ha subito accolti nel suo tour in Francia quando eravamo appena nati. Ma dobbiamo tanto ad Alessandro Portelli che in quegli anni aveva registrato le canzoni dialettali girando palmo a palmo tutti i piccoli borghi del Lazio e del centro Italia. Così quando ci presentammo come il Canzoniere, Portelli ci portò in giro per le piazze mostrandoci fiero come le sue “giovani bandiere”.

Gli incontri più belli di questo viaggio etnomusicale?

In Valnerina, dove conoscemmo il “Comandante” Dante Bartolini. Un partigiano di “Giustizia e libertà” che aveva scritto delle canzoni di Resistenza come Non ti ricordi mamma che parlava delle purghe dei fascisti e Vile Tanturi, canzone che narra di un assedio delle camice nere. Bartolini le cantava in umbro, noi le riadattammo in dialetto laziale.

Un lavoro da “professionisti” del cantautorato folk.

Macché, io nipote di Giuseppe Brega architetto del liberty pesarese, ero iscritto ad Architettura, e quel giorno degli scontri con la polizia a Valle Giulia stavo in prima linea... Anche gli altri del Canzoniere erano tutti studenti universitari, squattrinati perché appena usciti di casa, come il sottoscritto. A un certo punto, chitarra in mano, decidemmo di “svenderci” alla musica, l’unica attività che ci permetteva di mettere assieme il pranzo con la cena. Fino ad allora della musica popolare conoscevamo solo le canzoni di Gabriella Ferri, simbolo della romanità, ma con Portelli come guida andammo oltre.

Esperienza intensa ma breve quella del Canzoniere del Lazio.

In pochi anni facemmo la nostra piccola rivoluzione copernicana, da quattro passammo a sette elementi e diventammo un “gruppo elettrico”. L’ultima formazione è stata quella dei Carnascialia. Poi quando ci siamo sciolti, sono diventato un cantautore solista e ho seguito la mia stella cometa, Bob Dylan. Come Francesco De Gregori? Sì, ma io l’ho tradotto meglio di Francesco – sorride divertito – . A parte gli scherzi, se io fossi Dante e riscrivessi la Divina Commedia, Dylan sarebbe il mio Virgilio.

Ma lei è sempre stato un cantautore parttime, come l’avvocato Paolo Conte o il medico Mimmo Locasciulli...

Dal 1° gennaio scorso sono andato in pensione, ora faccio il cantautore a tempo pieno. Quando negli anni ’80 la politica culturale del Pci chiuse le porte alla musica popolare pensai che era meglio finire gli studi e trovarmi un lavoro. Grazie a un amico che mi vide in difficoltà entrai nello studio dell’architetto Paolo Portoghesi e lui mi prese con sé che non ero ancora laureato. Ho lavorato alla progettazione della Moschea di Roma e quando mi sono messo in proprio, nel ’92, ricordo l’abbraccio fraterno di Portoghesi che per me valeva più di tutti i milioni che avrei potuto guadagnare negli anni d’oro di Bettino Craxi...

Ma in quel periodo la sua musica dove era finita?

Quando non disegnavo o seguivo i cantieri, la chitarra era sempre con me. Continuavo a suonare e scrivere canzoni che però non hanno visto la luce fino al 2004 quando Giovanna Marini mi fece pubblicare Come li viandanti per le edizioni de “Il Manifesto” con cui cinque anni dopo è uscito l’album Fuori dal paradiso.

Alla metà degli anni ’80 ebbe anche una fortunata parentesi teatrale.

Renato Mambor, attore e pittore che con Schifano e Angeli animavano il Gruppo di Piazza del Popolo si era invaghito della mia storia di cantante irregolare, di artista pazzo che se ne frega del successo e dei soldi, e allora mi disse: «Dobbiamo scriverla questa storia. Io sarò il tuo domatore e ti porterò in tutti i circhi d’Europa ». Così nacque lo spettacolo teatrale L’albero inutile, metafora dell’esistenza virtuosa e controcorrente: un albero il cui legno non serve a nulla, non è commerciabile, ma proprio per questo vivrà un vita libera, felice. E sopravviverà più degli altri alberi, per almeno tre secoli.

È la stessa filosofia di resistenza “anarchica” e romantica che si ritrova ascoltando questo cd gioiello che è Mannaggia a me, impreziosito dai disegni di suo fratello Marco.

Il vero artista di casa. Marco Brega è stato un scenografo di grande talento, disegnava magnifici tendaggi e costumi. Era anche pittore ma non dipingeva per vendere i quadri. Questi suoi disegni che ricordano un po’ l’arte brut li ho messi nell’album come semplice atto d’amore verso un fratello che non c’è più...

C’è una canzone d’amore nell’album, Gelosia, che è dedicata all’altra voce del disco, nonché sua compagna di vita, Oretta Orengo.

Con Oretta ci siamo amati da giovani quando lei sedicenne cantava ne il Canzoniere internazionale di Leoncarlo Settimelli. Poi ci siamo persi per venticinque anni e ritrovati dopo varie peripezie sentimentali. Nel disco Oretta canta con la sua bellissima voce, suona il corno inglese e lo strumento per cui si è diplomata al conservatorio su indicazione di Giovanna Marini che gli disse: «Lascia la chittarra classica e studia l’oboe». Così ha fatto.

Il titolo Mannaggia a me fa pensare a un’imprecazione per un percorso artistico in cui forse avrebbe potuto incidere di più nella storia del cantautorato.

No, non è così. Certo entrando al Folk Studio prima di De Gregori e Venditti sarei potuto diventare il “terzo incomodo” di successo. Ma io ho sempre evitato me stesso. Adesso invece voglio essere incudine e martello e Mannaggia a meè un atto di denuncia. La presa di coscienza di un uomo che a 74 anni si domanda: forse è colpa mia se quel barbone al quale hanno amputato la gamba dorme tutte le notti sotto il ponte e non ha da mangiare?

Sembra una riflessione da credente e praticante cristiano.

Sono digiuno di religione, ma da poco ha cominciato a leggere la Bibbia partendo dalle Ecclesiaste. Mia sorella da Parigi, mi ha mandato la Legenda aurea di Jacopo da Varazze dove ho scovato l’episodio della vita di San Basilio che è diventata il titolo di una canzone di Mannaggia a me. Un giorno ho sentito forte dentro di me la domanda: «Sei disposto a morire sulla croce?». Ho provato a rispondere, ma non ci riuscivo. Finché mi è venuto in aiuto Dante che nel Paradiso scrive: «Dì boncristiano, fede che è? Fede è sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi, e questa pare a me sua quiditate». Illuminante.

Il 28 giugno, al Parco Milvio di Roma, Brega tornerà a cantare dal vivo: come si presenterà al pubblico, specie a quella parte di giovani che non la conoscono?

Due giorni prima del concerto della “ripartenza”, il 26 giugno, mi sposerò con Oretta... Una festicciola tra amici, poi salirò sul palco come l’uomo che perso nel mondo e nelle cose della vita in fondo è sempre lo stesso ragazzo del Canzoniere. Il sessantottino che chiede ancora a chi gli sta a fianco: «Ma secondo te quando ci sarà la rivoluzione? Per caso è già cominciata? » – sorride – . Sono rimasto un giovane libero, la prima domanda e l’ultima risposta spettano ancora a me.

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