lunedì 5 maggio 2014
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«Enrico IV è come Amleto. Dagli americani è considerato il capolavoro di Pirandello. E siccome non ho mai interpretato l’autore siciliano in vita mia, ho deciso di iniziare da un testo mitico». Franco Branciaroli non conosce le mezze misure, non fanno proprio parte del suo temperamento di mattatore. D’altronde il protagonista di Enrico IV è un istrione proprio come lui. «È un ruolo che caratterialmente mi è congeniale, dovrebbe venirmi bene» sorride sornione Branciaroli che si è impegnato come regista e attore in una grande nuova coproduzione fra il Teatro degli Incamminati e il Teatro Stabile di Brescia di cui è direttore artistico. Il debutto di Enrico IV sarà al Teatro Sociale di Brescia il 7 maggio, poi nella prossima stagione in tournée anche al Piccolo Teatro di Milano.Branciaroli, lei affronta di petto il Pirandello maggiore. Nessun timore?«Enrico IV è una grande opera, più compiuta dei Sei personaggi. Son quei testi che si rivolgevano al pubblico anni 30. Un pubblico teatrale colto che non aveva difficoltà a conoscere la storia a scuola. Oggi ho i miei dubbi che il pubblico colga certi riferimenti, ma non è un problema. Resta centrale il tema caro a Pirandello del rapporto sfuggente tra finzione e realtà che oggi è attualissimo».Un ruolo storicamente destinato ai grandi mattatori. «Lo so, è una bella sfida perché oggi tutti grazie alle nuove tecnologie oggi possono fare confronti con le edizioni di Valli, Randone, Moissi. Enrico IV entra nella mia galleria degli "attori" che in scena fanno gli attori come in  Servo di scena di Ronald Harwood, Il teatrante di Thomas Bernhard, Don Chisciotte. Questo per me è l’unico modo per un attore di essere sincero. Il protagonista di Pirandello, infatti, non è pazzo, è un attore che interpreta lucidamente il ruolo del re, vittima dell’impossibilità di adeguarsi ad una realtà che non gli confà più. Come ne I giganti della montagna, in quelle villone giganti e isolate avvengono delle recite della vita. E qui la tematica della maschera pirandelliana raggiunge la perfezione» In che cosa sarà diverso il suo spettacolo?«Io ho cercato di rendere in proscenio tutti gli altri personaggi, che spesso restano scoloriti. In genere ci si concentra solo su Enrico IV, quando esce di scena lui subentra la noia. Invece gli altri sono personaggi importanti che hanno bellissime battute. Ecco, io ho cercato di rendere Pirandello meno noioso». Certo che lei osa con una produzione importane, ben 10 attori, in un momento non facile.«Il panorama teatrale italiano sta diventando desolante. Ma proprio in questo momento occorre uno sforzo produttivo. È un calcolo se vogliamo anche cinico: se io entro dentro in questa crisi come una bomba, con uno spettacolo ben fatto, vero, con bei costumi e bravi attori magari funziona. Non ultimo, i teatri chiedono sempre i soliti autori che possano attirare le scuole: Goldoni, Pirandello, Shakespeare e Molière. In un colpo solo vorrei soddisfare le scuole, i teatri, il Branciaroli attore e il Branciaroli direttore artistico».Branciaroli mattatore in tutti i campi... E, assieme a lei sul palco, nel prossimo spettacolo dell’estate, altri "mostri sacri" come Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai e Massimo Popolizio.«L’ordine della locandina è rigorosamente in ordine anagrafico. Tedeschi 94 anni, Pagliai 76, Branciaroli 66 e Popolizio 53. Dipartita finale è un testo che ho scritto io e che debutterà quest’estate alla Versiliana e al Franco Parenti di Milano, sempre prodotto da Incamminati e Stabile di Brescia. Parla dell’agonia della nostra società, ma anche del nostro teatro. Dopo i nomi che ho citato sopra, ultimi reduci di un teatro grandissimo, io oggi non vedo niente. I protagonisti del lavoro sono dei clochard tra il reale e il metafisico che non riescono a morire. Un richiamo a Beckett ma, a differenza del suo nichilismo, qui c’è un raggio di speranza». Qual è il suo ruolo?«Io impersonerò la morte, che incontra questi barboni. L’ambientazione è in un futuro in cui l’uomo non muore più, realizzando tutto lo sforzo cui tende la scienza di oggi. Ma siccome la Terra sta per finire, tutti gli abitanti si sono trasferiti in un nuovo Olimpo dove possono fare gli dei. Insoma, è la scienza, la potenza umana che sostituisce Dio. Tutti, tranne questi tre poveracci che restano lì a domandarsi, anche in modo ironico e divertente, il senso della vita». Lei che senso dà?«Noi siamo incamminati ad andare oltre le leggi della natura, stiamo arrivando alla sovranatura. La scienza adesso non limita nessuna azione: non vi è morale né etica perché non c’è più nessun valore assoluto. L’uomo si sostituisce a Dio, però l’angoscia cresce, la realtà è senza ideale, la natura senza luce». Ma una luce lei dice che c’è.«Sì, la rappresenta il personaggio di Popolizio, che è immortale ma resta sulla Terra che sta per distruggersi. Dice che migliaia di anni prima c’è stato un uomo inchiodato che aveva detto che alla fine del mondo sarebbe tornato e ci avrebbe dato l’immortalità, che ci avrebbe fatto conoscere il perché delle cose. "Tra un’immortalità che non conosco e che mi riempie di angoscia, e una immortalità che mi spiega il perché, scelgo questa" dice. E aspetta, correndo il rischio che Costui non arrivi». Lei personalmente aspetta?«Certo, ne sono convinto. Ma con lucidità vedo che la cultura oggi non ammette più l’assoluto, perché il motore della filosofia occidentale è il divenire, le cose cambiano. E se ci fosse un assoluto il divenire sarebbe determinato: non ci sono più valori non perché siamo cattivi, ma perché i valori in questo contesto sono impossibili». C’è chi, come la Chiesa, però, che i valori li difende.«Il compito futuro della Chiesa sarà terribile, dovrà conciliare una visione spirituale e una mondana. Un compito che papa Francesco sta affrontando con coraggio e grande capacità. Perché, il mondo, dei valori ha nostalgia, eccome».
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