venerdì 11 marzo 2016
BOXE thailandese, pugni & affari
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La definizione sovente usata di “arte marziale culturale” della Thailandia è del tutto adeguata a definire la Muay Thai, che nel tempo ha relegato ai margini ogni altra forma di combattimento locale dopo averne assorbito il meglio senza, appunto, i “fronzoli” filosofici che caratterizzano molte arti marziali asiatiche. Di fatto, la Muay Thay ha molto più della praticità e della brutalità di discipline autoctone dell’Asia Sudorientale che della sofisticatezza e varietà delle pratiche marziali originate in Cina. Se si escludono le regole interne alle scuole in parte comuni, tra cui domina il rispetto dovuto alla genealogia degli istruttori e espresso nella elaborata coreografia del “wai kru” (omaggio al maestro) all’inizio di ogni combattimento, a livello agonistico la “boxe thailandese”, resta uno strumento pratico di lotta con un obiettivo solo e sbrigativo: l’annichilimento dell’avversario, con poche regole e ancor meno salvaguardie. Vittoria per la gloria più o meno transitoria e vittoria - in misura ormai invadente - per soddisfare le aspettative economiche degli atleti, di un vasto mondo di appassionati e di un fitto sottobosco di interessi che circonda il ring.  Questo può anche spiegare perché la Muay Thai sia finita per essere la base quasi indispensabile di Kickboxing, Mixed Martial Art e una sequela di pratiche di combattimento “globali” sempre più cruente e meno regolamentate che fanno apparire oggi il wrestling datato e tranquillizzante quanto il primo Star Wars rispetto all’ultimo sequel o prequel. D’altra parte, non da molti anni sono state abbandonate le pubbliche tenzoni di boxe tradizionale, quella con i pugni fasciati da strisce di cuoio o corde intrise di resina e armati occasionalmente da frammenti di pietra e di vetro resi noti da pellicole interpretate con poca espressività ma tanto spargimento di sudore e sangue da Jean-Claude Van Damme (Kickboxer) e da Tony Jaa (Ong Bak), girati proprio in Thailandia. Ancor più, in qualche modo in percorso inverso a altre tecniche cruente che si sono “incattivite” per la necessità di andare incontro alle esigenze agonistiche, la Muay Thai sembra avere nell’accesso recente alla pratica olimpica - maschile e femminile - una chiave per divenire più “sportiva”. La dirompente diffusione internazionale dell’ultimo ventennio unita all’accesso anche sui ring thailandesi di atleti stranieri, segnala un graduale adeguamento a necessità diverse da quelle iniziali di pura espressione bellica e obbliga all’ammorbidimento davanti a capacità e interessi variegati. Alla base delle tecniche di Muay Thai è l’utilizzo di ogni parte del corpo in grado di offendere con tecniche che imitano l’utilizzo di strumenti offensivi o difensivi: le mani sono spada e daga, stinchi e avambracci diventano scudi, il gomito si trasforma in mazza, gambe e ginocchia imitano asce e bastoni. Tutto con un coordinamento esasperato che consente una protezione stretta cercando contemporaneamente di utilizzare ogni spiraglio nella difesa avversaria per portare un colpo definitivo. Nei combattimenti su un ring quadrato con dimensioni che variano da 6,10 a 7,30 metri di lato, esce vincitore chi pone l’avversario in evidente ko oppure chi, alla fine dei cinque round di tre minuti viene designato tale dai giudici. Nella sua versione moderna, la “boxe siamese”, deve soprattutto alla presenza delle forze armate Usa e alleate in Thailandia dal conflitto indocinese la sua conoscenza oltreconfine e il primo adattamento in senso agonistico con l’introduzione di un numero fisso di round scanditi non più dal tempo di svuotamento dall’acqua di una noce di cocco bucata ma con cronometri. Con il tempo e con la contemporanea costruzione dei “templi” della Muay Thai, tra cui l’arena di Lumpini a Bangkok, è stato sviluppato un sistema di categorie basate sul peso, di regolamenti e di calendari per le competizioni, con una chiara ispirazione nel sistema pugilistico. L’evoluzione attuale della Muay Thai la rende sempre più popolare, sia tra il pubblico, sia tra i combattenti di varie discipline full-contact, ma con questa popolarità crescente, emergono ancor più le sue contraddizioni. Anzitutto la continua necessità di giovani leve da indirizzare all’agonismo. La “boxe thailandese” non è arte per combattenti oltre i trent’anni, ancor meno se professionisti.  L’allenamento può iniziare a 6-8 anni di età, con i primi approcci al ring attorno ai dieci anni e un numero di 120150 combattimenti per gli amatori prima di compiere il quarto di secolo, che diventano tre volte tanti per un professionista di successo. A sfavore giocano le conseguenze di una pratica non solo esigente, ma che espone più di altre a danni fisici. Non a caso, è forte l’accento posto sulla capacità di sopportazione, sull’abnegazione verso la scuola di appartenenza (di cui si aggiunge il nome al proprio) e della famiglia. D’altra parte, anche in questo caso contrariamente a altre pratiche marziali che sono prioritariamente appannaggio delle università, designate come attività culturali o intese come pratica psico-fisica tesa al benessere personale, la Muay Thai, ancor più in Thailandia, è strumento di avanzamento sociale e di arricchimento. Molti combattenti si confrontano con avversari 1-2 volte al mese per guadagnare un extra utile al loro sostentamento. Benefici economici che per la maggior parte raramente superano i 150 euro al mese. Una condizione ben diversa per chi arriva a livelli superiori. Nei suoi tempi migliori, quello che è ancora riferimento di milioni di praticanti e appassionati nonostante il recente ritiro, Buakaw Banchamek, di origini assai umili guadagnava 30mila euro a gara. Solo briciole, in un “indotto” di sponsorizzazioni, diritti televisivi e diversi, merchandising, scommesse (quelle sui combattimenti di Muay Thai in luoghi designati sono le uniche legali nel paese, ma la massa di quelle illegali è immensa). Una massa di denaro che spiega quanto espresso o suggerito dai media specializzati, con casi di avvelenamento, intimidazioni, corruzione di atleti non infrequenti e a volte con pressioni tali da costringere professionisti nel pieno della carriera a abbandonarla.
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