sabato 2 giugno 2018
L'architetto ticinese al Convegno liturgico internazionale. «Il sacro è la componente essenziale di ogni fatto architettonico». Lo spazio e la luce centrali nel «rapporto dell’uomo con l’infinito»
Mario Botta, uno schizzo della chiesetta di S. Giovanni Battista a Mogno, in Ticino

Mario Botta, uno schizzo della chiesetta di S. Giovanni Battista a Mogno, in Ticino

COMMENTA E CONDIVIDI

Mario Botta, architetto svizzero, non conosce confini: ha progettato di tutto – case, biblioteche, musei, scuole, banche, alberghi… –, e in tutto il mondo. La sua prima committenza, nel 1963, quando aveva vent’anni, è stata profetica: una casa parrocchiale. Da allora ha realizzato diciassette chiese, una cappella, una cattedrale, un'esperienza di cui racconterà oggi al XVI Convegno liturgico internazionale di Bose. Ha progettato spazi sacri per tutte e tre le religioni abramitiche: sua la sinagoga Cymbalista nel campus universitario di Tel Aviv e la moschea, in costruzione, a Yinchuan, in Cina. Le architetture di Botta hanno una potenza simbolica che nasce dall’impronta del suo progettare: sono radicalmente espressione dell’umano nella sua integralità, corpo e anima, anima e corpo. Gli spazi che crea, i materiali che utilizza, la purezza delle forme, il rigore dei tagli di luce, il dialogo tra il costruito e il paesaggio, tutto parla il linguaggio dell’uomo: un linguaggio accogliente come un abbraccio, semplice anche quando è grandioso, familiare come una madre, un padre, un fratello. La funzione non è mai scissa dalla dimensione spirituale della vita, la nostra vita e la vita di chi verrà dopo di noi.

Per lei l’architettura porta in sé l’idea stessa di sacro. Perché?

«Il primo atto di un progetto di architettura è quello di disegnare il perimetro, quindi di separare un microcosmo dall’immensità del macrocosmo dell’intorno. Questo procedimento è anche il fondamento dell’idea di ecclesia , che si basa sull’atto di separare una parte dal tutto, è la volontà di sacralizzare uno spazio voluto dall’uomo per distinguerlo rispetto alla natura. Inoltre lo spazio vive in quanto generato dalla luce, senza la quale non potrebbe esistere. E la luce diventa l’elemento centrale che mette in rapporto l’uomo con l’infinito».

La sua prima committenza ecclesiale risale al 1966: la cappella del convento francescano a Bigorio, nel Canton Ticino. Può dirci cosa ha significato per lei, giovanissimo architetto, trasformare un’antica legnaia in uno spazio sacro?

«Già ventenne avevo capito che la forma del sacro è la componente essenziale di ogni fatto architettonico: per la misura, per l’intensità dei rapporti che stabilisce, per la pluralità delle interpretazioni possibili, per la nozione infinita del tempo che comunica e che promuove. Quella committenza è stata un modo per misurarmi e mettere a confronto le forme contemporanee con il linguaggio antico, un esercizio grazie al quale ho compreso che – come sosteneva Carlo Scarpa, del quale ero allora fresco allievo – l’unico modo per rispettare il passato è quello di essere autenticamente moderni. Dal ripristino di quella vecchia legnaia, ogni mio intervento progettuale si è configurato con un linguaggio “altro” rispetto alle preesistenze».

Nel progettare lo spazio ecclesiale ci sono stati dei maestri a cui ha guardato? E quali sono i periodi dell’architettura ecclesiastica che predilige?

«Ho attinto dai grandi maestri dell’architettura moderna e contemporanea (Le Corbusier, Louis Kahn) ma, in particolare, ho avuto il privilegio di frequentare Carlo Scarpa, che grazie al suo linguaggio estremamente raffinato, è stato capace di dare forma e significato anche ai materiali più poveri. La forza espressiva dei materiali usati da Carlo Scarpa è quanto di meglio ha formulato l’architettura negli ultimi decenni. Ho, poi, grandi debiti di riconoscenza verso il romanico i cui esiti possiedono ancora oggi una forza evocativa straordinaria».

Lo spazio che crea è lo spazio della liturgia, lo spazio dove la comunità dei fedeli si riunisce in preghiera, dove viene proclamata la Parola e dove accade il più grande dei miracoli. Come guarda alla liturgia nell’organizzazione dello spazio?

«La liturgia esige un’organizzazione chiara e razionale dei diversi momenti che ritmano la preghiera e i riti comunitari. Le riflessioni del teologo Romano Guardini e il suo stretto sodalizio con Rudolf Schwarz sono riferimenti forti e tuttora d’attualità nell’interpretazione di un linguaggio razionale e moderno contrapposto a modelli ormai obsoleti delle tipologie ecclesiali del passato. Al tempo stesso resta la necessità di creare un luogo – proprio dell’ ecclesia – che rappresenti la continuità di una storia millenaria, un grande problema raramente risolto dall’architettura contemporanea. Resta per me fondamentale la lezione di Guardini: “Le forme architettoniche della chiesa si presentano come luoghi ove l’uomo ed il mondo si ricompongono… come simboli che visualizzano, attraverso il tempo, l’essere cristiano […] e gli edifici sono i simboli che rendono l’essere visibile attraverso il tempo”.

Cosa significa fare architettura sacra in un mondo secolarizzato?

«Significa riuscire a dare forma, spazio e identità a una collettività, a una cultura, che non sempre ha consapevolezza di un bisogno di immensità».

Lei è tra i pochi architetti viventi ad aver progettato una cattedrale. Ci può raccontare come è nata la cattedrale di Evry e come si è sviluppato il dialogo con l’allora cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger?

«Verso la fine degli anni Ottanta sono stato invitato a progettare una chiesa nella ville nouvelle di Evry, a sud di Parigi, che stava consolidandosi come città satellite rispetto alla capitale. Dato che veniva a costituire una nuova diocesi, ecco che la chiesa assumeva la funzione di cattedrale. L’aver scelto me è stato probabilmente dovuto all’aspetto “monumentale”, solido e materico, che caratterizza il mio linguaggio architettonico. Ricordo le discussioni appassionate e stimolanti con il cardinale Lustiger a proposito della riforma liturgica conciliare e delle nuove configurazioni architettoniche. In opposizione a certe mode post-sessantottine a favore del riuso, dei materiali poveri, delle chiese-capannone, Lustiger teorizzava un “ritorno al monumentale” come impegno per una nuova progettazione, che avesse un esplicito riferimento alla memoria e ai modelli del grande passato. È anche in quest’ottica che ho elaborato la cattedrale di Evry, consolidando la poetica già presente nel mio linguaggio, con l’uso di materiali naturali e minerali per la configurazione degli spazi, e una luce zenitale in grado di evidenziare le forme geometriche delle composizioni spaziali».

Come risolve il dialogo tra la chiesa e il contesto urbano in cui si colloca?

«L’architettura non è uno strumento per “costruire in un luogo”, ma uno strumento per “costruire quel luogo” che vuole quindi entrare a far parte della storia, della geografia, della cultura. Tra chiesa e contesto si stabilisce un rapporto di dare-avere reciproco senza interruzione di continuità. La chiesa configura il contesto e il contesto rimodella la chiesa. Per fare un esempio pensiamo all’intervento di Le Corbusier a Ronchamps e al nuovo equilibrio paesaggistico stabilitosi fra la chiesa e la collina, che ha trasformato a tal punto la lettura delle due componenti da rendere ormai impossibile pensare l’una senza l’altra». (La versione integrale dell’intervista sarà pubblicata su “Luoghi dell’Infinito” di settembre 2018)

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: