sabato 14 gennaio 2017
Volontà di vendetta e risentimento: su questo stanno seduti oggi i bosniaci, dopo che la guerra jugoslava del 1991-99 ha spartito il territorio tra Serbia e Croazia
Bosnia, Sarajevo cerca ancora la sua pace
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Volontà di vendetta e risentimento: su questo stanno seduti gli abitanti della Bosnia- Erzegovina. Nella guerra jugoslava (1991-1999) Tudjman e Miloševic – i leaders del progetto Grande Croazia e Grande Serbia – aggrediscono in armi la piccola repubblica di Bosnia Erzegovina disegnandone la spartizione in complicate carte geo-etniche. È allora che la Bosnia – nella propaganda croata e serba – diventa la «porta dell’islam» da murare. Ma poi la Bosnia si allea con i croati, tutto cambia (salvo i conti da regolare) e infine, per gli accordi di Dayton del 1995, diventa un territorio assegnato per il 51% alla federazione croato-bosniaca e per il 49% intestato alla cosiddetta 'entità serba' – che i serbi chiamano Repubblica serba. Tutto dentro un unico Stato di Bosnia-Erzegovina. Nelle elezioni amministrative di ottobre il leader dei serbi di Bosnia Milorad Dodik ha poi paventato l’indipendenza anche formale del distretto serbo. E l’intricata situazione si complica per la presenza in alcune aree della Bosnia centrale – municipalità di Zavidovici e di Maglaj – di insediamenti di ex-combattenti delle brigate mujaheddine (rimasti in Bosnia dopo la guerra), di nuovi partigiani dell’estre-mismo islamico e di giovani foreign fighters.

Jakob Finci,
leggendario presidente della comunità ebraica, nel dopoguerra ambasciatore in Svizzera e Lussemburgo, dà queste cifre: «Dalla Bosnia sono andati in Siria 400 giovani musulmani. Cinquanta di loro sono stati uccisi, 150 sono ritornati e 200 sono apparentemente ancora combattenti nel Medio Oriente. I combattenti rientrati sono in prigione, perché la partecipazione a guerre straniere è un atto criminale secondo le leggi bosniache. Hanno quasi tutti ammesso che la loro scelta di partecipare a una guerra straniera è stato un errore». Ma Jovan Divjak, generale in pensione – ha organizzato e diretto la prima difesa di Sarajevo, in italiano il suo Sarajevo mon amour (edizioni Infinito, Roma 2007) – chiarisce meglio: «Sì, i dati ufficiali del governo mostrano che tra i volontari in Siria e in Iraq ci sono oltre 150 cittadini della Bosnia-Erzegovina, alcuni di loro con famiglie. Però secondo me questo non succede per ragioni ideologiche e religiose, ma per soldi». Mercenari dunque. All’interno della drammatica stratificazione bosniaca, Srebrenica è la ferita aperta e sanguinante, irrimediabile. Si aprono e chiudono fosse comuni, si aprono e chiudono processi.

Amila Kahrovic Posavljak,
32 anni, sarajevese, recente premio 'Mak Dizdar' per la saggistica letteraria, collaboratrice del quotidiano Oslobodjenje e della rivista Dani, inscrive l’estremismo islamico nella condizione 'estrema' in cui vive il Paese. Racconta: «L’anno scorso a Zvornik sono stati assassinati due poliziotti serbi. Zvornik è una città sulla Drina, al confine con la Serbia, 'etnicamente ripulita' dalle bande serbe all’inizio della guerra. L’assassinio è stato subito classificato come 'terrorismo islamico', essendone autore un giovane musulmano nato a Zvornik nel 1992. Davanti ai suoi occhi di bambino i cetnici (i nazionalisti serbi) hanno sgozzato 270 persone compresi i vicini, i parenti e il suo stesso padre. A guerra finita, la madre, stanca di vivere in un campo profughi, è tornata a Zvornik e il ragazzo veniva preso in giro a scuola perché bosniaco, ogni giorno incontrava gli assassini del padre, si dice persino che lo aspettassero al bar e lo prendessero in giro davanti a tutti... Lui e la madre sopravvivono grazie agli aiuti internazionali, viene loro negato ogni tipo di lavoro, in quanto musulmani. Alla fine lui si arma e uccide. Storia paradigmatica, vero? Al processo è poi emerso che i due poliziotti erano ricercati per le stragi di Srebrenica. Diciamo che in un Paese dove poliziotti in attività hanno partecipato a un genocidio, non è poi così strano che sorgano estremismi con tipologie certo diverse, con diverso background. Combattere l’estremismo non significa chiamarlo con nomi vagamente ideologici o religiosi. Fine della storia».

Ismail Palic, nato nel 1969 nella Bosnia orientale, si è formato nella scuola superiore di teologia islamica Gazi Husrev-beg di Sarajevo, è docente universitario e autore, tra l’altro, di un imponente vocabolario della lingua bosniaca. Il professor Palic vive un evidente conflitto con l’estremismo di radice wahabbita: «La Bosnia Erzegovina, dal punto di vista della minaccia estremista, specialmente quella armata, è un Paese molto più sicuro della maggior parte delle nazioni europee. Qui da secoli vivono i musulmani europei autoctoni che, oltre alla spiritualità orientale, hanno ereditato e custodiscono la cultura e la civiltà occidentale. Tuttavia è vero che in Bosnia, soprattutto nell’ultimo periodo, si sono manifestate espressioni di estremismo religioso. È una cosa del tutto negativa, ma questa deriva, anche se causa problemi prima di tutto dentro la comunità musulmana, non è una minaccia agli altri ». Per Palic la crisi si origina dall’avere al governo «costantemente i partiti nazionalisti che non fanno altro che distruggere questo Paese. La Bosnia è prima di tutto divisa territorialmente secondo il principio etnico. Per secoli in Bosnia Erzegovina i popoli di diverse religioni e nazioni hanno vissuto gli uni con gli altri, oggi vivono gli uni vicino agli altri, che è molto diverso».

Jakob Finci aggiunge: «Negli ultimi 15 anni, dopo i vandalismi del 2002 all’antico cimitero ebraico, non c’è stato nessun attacco o attentato alle sinagoghe (ne abbiamo 5 in città) o ad altri obiettivi ebraici o a persone. È quasi incredibile che oggi la Bosnia sia, come è, uno dei rari Paesi europei liberi dall’antisemitismo». Qualcosa di simile al professor Palic afferma monsignor Franjo Topic, presidente della associazione cattolica Napredak( «Progresso»), uomo che per tutta la guerra ha con insistenza lavorato per l’unità croato-bosniaca: «Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar sono gli Stati che 'investono' in Bosnia, prima di tutto costruendo moschee e promuovendo l’islam wahabita che non è il nostro islam. Alcuni Paesi islamici vedono la Bosnia come ponte verso l’Europa occidentale». Ma comunque tutti, Palic e Topic, lamentano l’arroccamento etnico post-Dayton, alibi e culla dell’estremismo, fondamento della corruzione politica.

Nada Salom–
padre sloveno, madre serba montenegrina, marito ebreo – responsabile delle pagine culturali di Oslobodjenje sino al 2012, oggi in pensione, rovescia il tavolo e propone un’analisi di classe, aggirando la trappola etnica: «Stiamo ugualmente bene o male a Banja Luka o a Sarajevo, da un lato o dall’altro della Neretva. Siamo divisi in super ricchi, in famigli ubbidienti, dipendenti remissivi e in poveri. La classe media non esiste più. La mia pensione è di 260 euro! Il lavoro nero è diffuso, gli stipendi insufficienti. Ci dividiamo sempre più tra quelli che partono e quelli che restano, soprattutto anziani. Dal 1995 ad oggi, più di 200.000 giovani hanno lasciato il Paese e il 67% di loro è senza lavoro».

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