mercoledì 19 marzo 2014
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Anche la Germania è ovvia­mente coinvolta nel ricordo dei cent’anni del conflitto che ha sconvolto l’Europa. E a guidare il dibattito in que­sto momento, per il suo suc­cesso di critica e nelle libre­rie, è  La Grande guerra: il mondo 1914-1918  di Herfried Münkler, storico delle i­dee e politologo all’Università Humboldt di Berlino. Professor Münkler, lei ha scritto che da nessuna guerra si può imparare come dalla Prima guerra mondiale: in che senso? «Se si vuole imparare dagli avvenimenti e dai loro sviluppi bisogna porsi delle do­mande. L’idea a lungo dominante per cui la prima guerra mondiale è stata un esi­to deterministico, ossia inevitabile, è sta­ta un ostacolo alla comprensione, così come l’idea che solo la Germania guglielmina sia stata responsabile dell’e­splosione del conflitto. Chiediamoci in che mo­do più probabilmente la costellazione degli Stati tedeschi nel 1914 ha fat­to la guerra. Non ci furo­no accordi istituzionali per fermare l’ escalation del sospetto e della diffi­denza, nessuna costrizio­ne per iniziare delle trat­tative quando le tensioni si acuirono. Perché non si riuscì a cogliere l’approssimarsi della tra­gedia? Al Piano Schlieffen dei tedeschi va una grande responsabilità, ma anche al­le intese fra russi e francesi, così come alla promessa di sostegno dei russi alle Serbia. Perché non si è riusciti a termi­nare politicamente la guerra nel tardo autunno del 1914? Qui ci imbattiamo nei meccanismi della conduzione di una guerra di coalizione, che impediscono a ogni singola parte di fare il primo passo per la pace. È come nel gioco dello shan­ghai: il primo che sussulta ha perso. Ma si possono osservare altri processi che si sono rivelati fatali. I tedeschi hanno e­normemente imparato a livello di tatti­ca militare durante la guerra, il che ha permesso loro di resistere a lungo allo strapotere avversario in uomini e mezzi. Ma il perfezionamento militare ha anche impedito di abbandonare il cammino che aveva portato al conflitto». Nel suo ultimo libro sottolinea il ruolo degli intellettuali in quelle vicende: fu così cruciale? «Fu una guerra della borghesia, che in Germania si era ripromessa di raggiun­gere un ruolo di guida. In Francia l’ave­va già ottenuto e doveva piuttosto dare prova di esserne all’altezza. Gli intellet­tuali che hanno accompagnato la guer­ra delle armi con quella della penna era­no soprattutto di estrazione borghese e hanno contribuito enormemente a dare una giustificazione agli eventi: la Ger­mania era entrata in guerra senza fini po­litici chiari, per cui il suo coinvolgimen­to finì per assumere un senso sovra-po­litico, alla luce della storia o nei piani di Dio». Oswald Spengler pubblicò “Il tramonto dell’Occidente” nel 1918. Quanto la Grande guerra ha segnato la cultura eu­ropea all’insegna di un pensiero debo­le e negativo? «Il XIX secolo era stato segnato dall’e­sperienza della crescita, politica ed eco­nomica. Si pensava che nel nuovo secolo la vio­lenza non avrebbe avuto spazio. Auguste Comte,  Herbert Spencer e la sini­stra hegeliana descrive­vano società in cui il la­voro aveva abolito la vio­lenza come meccanismo di regolazione. La guerra ha distrutto questa visio­ne ottimistica. L’uomo si è volto di nuovo alla vio­lenza con il fascismo, il nazismo ma anche il bol­scevismo, come movi­menti politici fondati appunto sulla vio­lenza. Spengler, la “scimmia intelligente di Nietzsche” come lo definì Thomas Mann, interpretò in quel frangente una duplice parte: di chi indicava uno sce­nario e di chi ne accelerava l’avvento». La guerra ha coinvolto pesantemente anche il cattolicesimo e il protestante­simo: se il kaiser era il capo della Chie­sa evangelica di Prussia, gli italiani si ri­trovarono a combattere contro i loro “fratelli” cattolici austriaci… «Si può dire che nel 1914 siano naufragate tre Internazionali: quella socialista, che si era proposta come obiettivo di impe­dire la guerra, l’internazionale dell’alta aristocrazia – i governanti dei maggiori Paesi in guerra fra loro erano imparenta­ti – e anche, se si vuole, l’internazionale del cattolicesimo: papa Benedetto XV con le sue iniziative di pace non riuscì a vin­cere lo scontro dei nazionalismi. I fatto­ri di coesione tra le nazioni nel 1914 si sono rivelati più deboli delle forze divi­sive». Prima e Seconda guerra mondiale sono stati due confitti separati o alla fine un’unica guerra in due tempi? «Certamente si possono vedere insieme, come se fosse stata un’altra Guerra dei Trent’anni nel cuore dell’Europa. Però in questo modo sfuggono le specifiche re­sponsabilità politiche e tutto appare semplicemente come un grande bagno di violenza. Questa guerra è stata, come George Kennan ha detto, la catastrofe o­riginaria del XX secolo, da cui sono di­scese le altre catastrofi: Mussolini, Hi­tler, certamente anche Lenin, soprat­tutto Stalin e quindi la seconda guerra mondiale. Bisogna capire la prima guer­ra se si vuole capire il ’900 e diventa chia­ro che le sue ricadute durano fino ai giorni nostri. Pensiamo ai Balcani o al­lo spazio post-imperiale del Caucaso (e dell’Ucraina, per stare ai fatti di questi giorni), ma soprattutto alla disintegra­zione dell’impero ottomano e all’irri­solto ordine politico del Medio Oriente. In altri termini, la Prima guerra mon­diale è storia, ma si affaccia ancora sul presente».
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