lunedì 13 maggio 2013
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Se pensate che quella hollywoodiana sia la più imponente e prolifica cinematografia del mondo, vi sbagliate di grosso. La capitale mondiale del cinema è da tutt’altra parte, a Bombay, oggi ribattezzata Mumbai, dove ogni anno vengono prodotti oltre 1000 film distribuiti in 70 Paesi (100 se consideriamo le tv) e capaci di commuovere e divertire una sterminata platea che unisce indiani di diverse generazioni, estrazioni sociali e religioni. Un’industria dei sogni dal grande potere aggregante che, con un valore stimato dalla Camera di Commercio Indiana pari a 2,2 miliardi di dollari (destinato a salire fino a 6 miliardi entro cinque anni), e con quasi 3 miliardi di biglietti acquistati (4 in tutto il mondo) da oltre 45 milioni di spettatori, non conosce crisi. Quest’anno festeggia 100 anni di vita, canti e danze, celebrati al prossimo Festival di Cannes, dove verranno presentati quattro cortometraggi commemorativi, Bombay Talkies, firmati da grandi registi indiani e interpretati dal leggendario Amitabh Bachchan, nel 2000 l’attore più famoso del mondo, oggi settantenne. Il 3 maggio del 1913 fu infatti presentato il primo film indiano, naturalmente muto, diretto da Dhundiraj Govind Phalke, Raja Harishchandra, che inaugurava uno dei filoni più popolari, quello mitologico. All’epoca però né le attrici hindu né quelle musulmane potevano apparire sul grande schermo, quindi un produttore teatrale propose di ingaggiare indiane ebree, alle quali non era proibito esibirsi. Una brillante soluzione raccontata in un recente documentario di Danny Ben-Moshe dal titolo Shalom Bombay: The Untold Story of Indian Cinema. Quello di Mumbai non è ovviamente l’unico cinema prodotto in India, che sforna ogni anno centinaia di film nelle 22 lingue regionali ufficiali, ma di certo è stato quello capace di imporsi nell’immaginario occidentale. La prima coproduzione con l’Europa risale al 1929, con The Throw of Dice, il primo film sonoro, Alam Ara, è del 1931, mentre il primo successo al botteghino, Kismet, arriva nel 1945, in piena "golden age", e Mother India del 1957, primo film indiano agli Oscar, si colloca tra le più belle pellicole della storia del cinema mondiale. In un secolo il cinema di Bollywood (termine nato negli anni Settanta fondendo le parole Bombay e Hollywood, per sottolinearne le stesse ambizioni popolari e planetarie) ne ha fatta di strada e oggi dà lavoro a 6 milioni di persone, forte di uno star system (a un anno fa risale l’inaugurazione della Walk of Fame nel distretto di Bandra, a Mumbai, ed è imminente l’apertura di un Museo del Cinema) apprezzato anche negli Usa. Basti pensare a divi del calibro di Shah Rukh Khan e Aishwarya Ray che nel loro curriculum vantano pellicole di major americane e molte frequentazioni di festival internazionali. La bellissima Ray, ex Miss Mondo, siederà in platea tra pochi giorni a Cannes per Il grande Gatsby al quale ha preso parte, diretta dall’australiano Baz Luhrmann, uno dei registi più influenzato dalle pirotecniche coreografie bollywoodiane. Con lei sullo schermo anche Amitabh Bachchan, che nel 1999 fu votato in un sondaggio della Bbc come «Star of the Millennium» (al secondo posto c’era Lawrence Olivier). Venerate quasi come divinità, le stelle del cinema hindi, le cui immagini rimbalzano da un angolo all’altro delle strade, su cartelloni pubblicitari appesi ovunque, sono protagonisti di commedie e melodrammi che si snodano per oltre tre ore tra eroine tragiche e cattivi da antologia, matrimoni impossibili e tradimenti, lacrime, rigide tradizioni familiari e romantiche dichiarazioni d’amore, mescolati come spezie dei celebri piatti masala. Ma soprattutto musica, tanta musica, destinata a raggiungere anche le discoteche britanniche (pensate al dj Punjabi MC): in media dalle 5 alle 9 canzoni a film, con gli attori doppiati da famosi cantanti. Niente baci, per carità, la censura è severissima, tanto che se due labbra solo si sfiorano il film viene classificato "per adulti". La scena del "sari bagnato" è il massimo concesso agli spettatori, entusiasti però delle spettacolari danze ispirate alle tradizioni popolari delle varie regioni indiane, sullo sfondo di esotici scenari (spesso le montagne svizzere, ma anche Roma, Capri, Venezia e il Salento), marchio di fabbrica di una cinematografia che fa ballare mezzo pianeta e, divertimento familiare per eccellenza, occupa una posizione rilevante nella cultura indiana. Tanto che le major americane come Disney e Fox, decise a conquistarsi una bella fetta del mercato, hanno preferito investire in produzioni locali piuttosto che vendere film americani a un Paese il cui box office concede solo il 9% ai film stranieri. D’altra parte l’indiana Reliance Entertainment dell’industriale milionario Anil Ambani non solo è partner al 50% della Dreamworks di Steven Spielberg, ma fa affari anche con la Saturn Films di Nicolas Cage, la JC 23 Entertainment di Jim Carrey, la Smokehouse Production di George Clooney, la Playtone Productions di Tom Hanks, la Plan B Entertainment di Brad Pitt e la Red Om Film di Julia Roberts. L’unione questi due mondi non è mai stata così stretta.
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