venerdì 14 ottobre 2016
Bob Dylan, la poesia della voce
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È un evento. È il Nobel per Letteratura per la prima volta non assegnato a un autore di libri. Bob Dylan, nome d’arte di Robert Zimmerman, è un autore di musica che nasce insieme con le parole. È quindi interprete di dischi: il primo autore di dischi a vincere il premio massimo destinato agli scrittori di libri. Il disco è voce, registrata, impressa, la sua storia inizia con il microsolco: anche la scrittura, alle origini, nelle caverne, fu un microsolco, una traccia sottile nascente prima sulla pietra, poi, millenni come fossero attimi, sulla pelle, pergamena, poi sulla carta. Per fissare la voce.Verba volant, scripta manent: la parola scritta permane, fissa, nasce  per salvare e memorizzare: che cosa? L’irraggiungibile flatus vocis della parola originaria fuggente come l’immagine riflessa nell’acqua di un torrente. I Greci, la più importante civiltà letteraria del mondo antico (ho detto la più importante, non l’unica), prima di Roma, inarrivabile fucina di poeti, usano in origine le parole scritte per annotare otri, misure di cereali, pesi di argento (preistoria notarile), ma per il resto, per la loro vita, ascoltano i poeti, gli aedi, a volte analfabeti, che raccontano, accompagnandosi con strumenti a corde e, salmodiando, i miti: storie delle origini che proseguono nel tempo, in variazioni infinite, in cui si mescolano eventi accaduti e storie inventate. Nobel per la letteratura a Bob Dylan di Angela Calvini
Mi devo pronunciare, un poeta si deve necessariamente pronunciare sul primo premio Nobel per la Letteratura assegnato a un autore non di opera letteraria. Ma di parole unite alla musica, inscindibilmente nate ed espresse nel canto e, in seguito, in sala d’incisione, registrate, in origine sulle tracce concentriche di un microsolco, emblema di perfezione misterica e pitagorica: la voce che nasce perché una puntina, in origine di diamante, perfora delicatamente un solco, mentre il disco, colme il mondo, ruota.Un poeta è forse più adatto di altri a esprimersi in una caso del genere, sicuramente più tenuto, moralmente, a farlo. Perché questo Nobel non premia la letteratura; e il poeta, come ogni autore di letteratura vive un sentimento che va dalla perplessità alla condanna. Ma mentre il romanziere, il critico, lo storico di letteratura, il traduttore letterario, vedono illegittimamente attribuito un premio a chi autore di letteratura non è, ufficialmente non è, il poeta, perfettamente d’accordo con loro, poiché anch’egli autore di libri, scritti, stampati, a volte anche letti, nello stesso tempo è uno che lavora con il mistero della voce. Anzi in quel mistero vive. La poesia nasce da una voce a cui devi dare forma e memoria: in origine è musica e voce, prima di tutto è suono, poi, pitagoricamente, alchemicamente, sciamanicamente, quel suono diviene forma, immagini, racconto, per tornare suono nelle orecchi del lettore, che sfoglia la pagina. Sì, viva Bob Dylan e viva il Nobel a Bob Dylan, non in quanto musicista, cantante, chitarrista eccellente, ma perché è qualcosa di unico, irripetibile: una voce che nasce con la musica e si fa universale. La voce roca e le corde della chitarra riportano a un momento fondante e ancestrale della poesia. Se qualcuno intende che così si promuova la categoria dei cantautori al cerchio dei Boccaccio, dei Melville, dei Baudelaire, sbaglia. Nessuno sta promuovendo a poeti i cantautori, che fanno un altro lavoro. Spesso benissimo. Meglio un grande cantautore, un Tenco, un Paoli, che un mediocre poeta. Ma i campi restano distinti. Bob Dylan, il menestrello e simbolo rock Bob Dylan, è altro: è il ritorno potente della voce e delle corde a cantare poeticamente il mondo, è la risposta universale, più che popolare, della voce umana che cerca di dare vita alla vita. Quella voce che un grande Nobel, Samuel Beckett, vede unica forma di resistenza umana in un mondo paralizzato e sprofondante. E che Dylan riporta, risveglia, alla sua conscia, faticosa fanciullezza. Il Nobel a Dylan è il Nobel al rock come poesia, come forza spirituale che irrompe nel Novecento esangue e languente. Contiene altre voci, di Billie Holiday, di Janis Joplin, di Jagger, di Van Morrison, di Neil Young, che vennero, cantano e verranno. Bob Dylan non è a mio parere il più grande del rock, la musica che anima il mondo e salva la vita (sì, salva la vita, colme dice Wenders): credo che nessuno sia e sarà mai il rock come i Rolling Stones. Si offrono, ogni volta che Mick corre scatenato sulla passerella rischia che se lo mangino, come Dioniso e Orfeo. Ma quelli sono una band. Dylan è solo, primordiale, un uomo, uno strumento a corde. Rispetto agli Stones meno generoso, certo meno attento al prossimo, come purtroppo molti poeti. Ma è potenza elementare e raffinatissima della musica, parole che rinascono, come alle origini. Solo in assoluto, voce, corde, parole, canto, come Orfeo. È unico, geniale. Nobel per la letteratura. Letteratura orale, letteratura prima di essere scritta, letteratura originaria. Cantata, fatta canto. A una condizione: che questo premio, unico e assoluto, resti tale. La musica, anche quella che si fonde con la parola, continui la sua strada, il Nobel resti ai libri. Con questo vitale e coraggioso riconoscimento alla magia della parola che nasce da voce e suono. E che non fa dimenticare i premi Nobel inspiegabilmente negati ai grandissimi poeti Luzi e Bonnefoy. Ma, ripeto, il Nobel a Bob Dylan è il premio a un vento di cambiamento dello spirito e a una nuova forza nata in un secolo debilitato e spesso rinunciatario. Sì, ha ragione Wim Wenders, il rock irrora la vita.
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