domenica 24 giugno 2018
Parla la ballerina e coreografa capoverdiana, premiata con il Leone d’argento alla Biennale Danza di Venezia
Marlene Monteiro Freitas (A. Merk)

Marlene Monteiro Freitas (A. Merk)

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«Quando dico che sono di Capo Verde, molti mi chiedono: dov’è? Ma quando parlo di Cesaria Evora tutti lo sanno. La nostra musica è riconosciuta nel mondo, lo stesso mi piacerebbe accadesse per la danza». Ha un sorriso largo sotto una cascata di ricci neri Marlene Monteiro Freitas, una bella creola nata nel 1979 nell’isola di Saint Vincent nell’arcipelago africano al largo dell’Atlantico, dove ha cofondato la compagnia Compass. Pioniera della danza contemporanea nel suo paese, dopo essersi formata tra Lisbona e Bruxelles, Marlene è divenuta una delle nuove coreografe più richieste tanto da meritarsi il Leone d’argento alla Biennale Danza di Venezia. Il riconoscimento le verrà consegnato il 28 giugno, prima del debutto italiano del suo premiato Bacchae - Prelude to a purge (“Bacco - Preludio alla punizione”) ispirato alle Baccanti di Euripide. Giunto alla sua dodicesima edizione, il Festival internazionale di danza contemporanea, inaugurato venerdì scorso dalla consegna del Leone d’Oro alla coreografa americana Meg Stuart, quest’anno è all’insegna della forza femminile.

Marlene, cosa significa per lei questo Leone d’argento?

«Il Leone d’Argento è stato una grande sorpresa, un onore e un riconoscimento importante per tutta l’équipe che lavora con me da tempo. A Capo Verde la danza professionale non ha mai avuto un grande posto, grazie anche a questo premio la gente da noi ora sa che la danza contemporanea esiste».

Come, nel paese della musica la danza non ha posto?

«Da noi la danza è qualcosa di quotidiano, di sociale, che si usa nelle cerimonie e nelle feste. C’è, ma non è teatro. La musica di Capo Verde, invece, ha un riconoscimento internazionale che ci affranca dall’isolamento geografico. La presenza di compagnie professionali di danza provenienti dall’estero è occasionale. Ma a Capo Verde si può sognare qualcosa d’altro e di nuovo».

Ma lei come ha scoperto la danza? «Io ho cominciato con un gruppo di amici che mi hanno fatto appassionare. Non esisteva una scuola di danza da noi, ma a 15 anni ho visto per la prima volta uno spettacolo di danza contemporanea grazie alla residenza artistica di una compagnia portoghese a Capo Verde. Noi ci siamo formati studiando le cassette registrate con i videoclip di Mtv che ci mandavano dei colleghi di mio padre dall’America. Poi ho deciso di venire a studiare danza in Europa».

I suoi genitori come hanno reagito?

«Avevo la possibilità di fare altri studi, cosa che per noi è un privilegio, perché studiare in Europa è molto costoso e possiamo andarci solo grazie a borse di studio. Il mio è stato un passo azzardato, ma la mia scelta è stata rispettata. Credo di aver ereditato la vena artistica da mio nonno, il compositore George Monteiro, noto come Jatamont».

Com’era vivere in un arcipelago africano crocevia di culture?

«Sono cresciuta a Saint Vincent, in questa isola c’era una relazione forte con il porto: spesso arrivavano navi con gente straniera, che parlava altre lingue e portava oggetti internazionali, musiche nuove, la moda... Ho vissuto un’isola cosmopolita. In più i nostri emigranti rientravano per le vacanze e portavano tante cose nuove. Avevamo l’opportunità di conoscere persone che avevano studiato all’estero, che avevano visto spettacoli o film, che ci parlavano di libri e ci portavano riviste. L’isola ha una cultura molto specifica, creola, con cui mi identifico, ma anche cosmopolita».

Capo Verde è anche luogo di forte emigrazione?

«La relazione coi nostri emigrati è molto forte. Noi ricevevamo da loro dei bidoni di ferro con vestiti, caramelle e altri oggetti che venivano distribuiti. Le cose ora sono cambiate, ma al porto si vedono ancora alcuni bidoni. Gli emigranti di Capo Verde sono ovunque nel mondo, tanti negli Stati Uniti, in Portogallo e nei Paesi del Nord Europa; mio zio è emigrato in Argentina. Mio padre invece è rimasto, lavora in un’impresa di esportazione e importazione di combustibili, mentre mi sorella lavora in progetti sanitari dell’Unicef per i bambini delle isole di Capo Verde».

Lei propone uno stile di danza originale che coinvolge vi- so e corpo, ma anche voce e strumenti. Come sarà il suo Euripide?

«Dal Teatro Nazionale di Lisbona mi è arrivata la proposta di lavorare sulla tragedia greca e io ho scelto Baccanti per la forza irrazionale alla base di questo dramma. In Euripide si articolano la ferocia e il desiderio di pace, la crudeltà e l’aspirazione a una vita semplice e pacifica. I personaggi e le situazioni sono legati alla trama, ma uso anche le poesie di Sanguineti. Le figure sono più enigmatiche e misteriose. La definirei una pièce di danze e mistero, dall’illusione e la cecità alla rivelazione, un gioco di apparenze».

Cos’è il mistero per lei?

«Una relazione con l’intensità, come quando si sente qualcosa e non si capisce veramente: il sentire tragico mi interessa molto. Penso alla relazione coi sogni, la notte, come le immagini emergono, a volte contradittorie. C’è uno spettro largo, qualcosa che non è lineare: lo abbiamo in noi».

La danza può insegnare a superare le barriere?

«Della danza bisogna fidarsi, il suo è un linguaggio teatrale per la pace. È il linguaggio che, all’ansia di questa epoca di catalogare e di comunicare tutto, contrappone quello del sogno. La danza può essere compresa da tutti».

Lei è nata in Africa e vive in Europa, a Lisbona. Come questi due continenti, che oggi paiono in conflitto, possono dialogare?

«A me lo ha insegnato la cultura creola, che è un ponte fra Europa e Africa . C’è una capacità di adattamento e una curiosità verso l’altro molto grande. Essere in Europa vuol dire vivere un viaggio l’uno verso l’altro, è subire una metamorfosi, andare verso lo straniero. Si va l’uno uno verso l’altro finche si trova l’ibrido. Tutto il mio lavoro è sulla creatura ibrida, sulle idee ibride: forse sono contraddittorie, ma io propongo un dialogo».

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