venerdì 27 maggio 2016
Biennale architetti al fronte
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All’ingresso delle Corderie dell’Arsenale ci sorprende una foresta metallica sospesa al soffitto, mentre tutto intorno corrono lastre sovrapposte. Sembra pietra, ti avvicini ed è cartongesso. Alejandro Aravena ha realizzato l’ambiente reimpiegando il materiale demolito dalla scorsa Biennale arti visive. Un atto simbolico, che trasforma il materiale (non si ha la percezione che si tratti di rifiuti) attraverso il design. Un manifesto del “pensiero laterale” che governa la 15ª Biennale Architettura che domani apre al pubblico. Quello dimostrato dall’archeologa Maria Reiche che, in una fotografia di Bruce Chatwin usata come immagine simbolo, si alza su una scala per leggere i disegni di Nazca, quando per tutti erano semplici pietre. Aravena, cileno, 48 anni, Pritzker Prize 2016, è l’alfiere di una nuova architettura “sociale”.

Block Research (Italo Rondinella)Con Elementalha realizzato residenze popolari che prevedono una componente di autocostruzione da parte degli abitanti, come processo di identificazione e metodo di mantenimento costi: un progetto premiato qui a Venezia nel 2012 con il Leone d’Argento. La sua Biennale si intitola “Reporting from the front”, notizie dal fronte. Ognuno degli 88 studi da 37 paesi è impegnato in una “battaglia”. I punti caldi del fronte sono: ineguaglianza, segregazione, periferie, migrazione, sanità, rifiuti, inquinamento, sostenibi-lità, traffico, comunità, abitazione, mediocrità, banalità. Le “armi” sono soprattutto la cura dei processi, la partecipazione, il recupero di tecniche e materiali della tradizione, la valorizzazione della manodopera locale. 

(REPORTING FROM THE FRONT - Curator: Alejandro Aravena)Non era remoto il rischio di una Biennale retorica, dopo quella pseudo marxista di Enwezor del 2015. Invece Aravena è riuscito a evitare molti luoghi comuni e la “fiera” delle buone pratiche. Resta, però, una Biennale politica. È una mostra rivolta a coloro che hanno la responsabilità delle decisioni. È una Biennale che contesta politici, speculatori, protagonismo e connivenza di architetti ma, curiosamente, con dolcezza. Ed è paradossalmente, una Biennale che cerca il “classico”: semplicità di linee, funzionalità e concretezza, scala umana, equilibrio dialettico tra «creatività» e «pertinenza », per usare le parole chiave di Aravena, tra audacia e buonsenso, segno autoriale e comunità, monumento e sentimento. Parlare di fronte significa trovarci ai margini dell’architettura e avere un avversario. Per di più qui non siamo in difesa ma in attacco. Cosa c’è di là dal fronte? Per Aravena, in sostanza, c’è l’architettura stessa. E la sua battaglia è svincolarla da logiche autoreferenziali, allargarla ad altri ambiti senza che dimentichi «di dare forma ai luoghi in cui viviamo». 

L'installazione di Aravena nelle Corderie (Alessandro Beltrami)Appare quasi scontato che molte delle proposte più interessanti siano di studi piccoli e ignoti al grande pubblico. Molto il lavoro di analisi, e molti anche i progetti realizzati su grande scala, urbana e paesaggistica, che evitano l’altro rischio: l’effetto di Davide contro il Golia dell’architettura capitalista. Uno dei filoni più interessanti riguarda la possibilità strutturali delle volte autoportanti che riducono materiale, energia e costi: una tecnica antica perfezionata con l’ausilio della modellazione in 3D di geometrie sempre più efficienti. Un altro gruppo muove dalla ricerca sui materiali tradizionali dimostrandone i potenziali tecnici inespressi ma lottando allo stesso tempo – ed è un’altra linea molto interessante – contro normative rigide che in aree sviluppate producono soprattutto architettura standardizzata. L’obsolescenza della sostenibilità (se portiamo quest’ultima all’estremo, non si dovrebbe più costruire) si supera invece per Aravena con architetture che durino di più. Non mancano – ma sarebbe stato difficile evitarle in una mostra di queste dimensioni – le contraddizioni. Come non mancano anche le archistar. Più del prevedibile. Non ci sono, non potrebbero esserci, Hadid o Koolhaas.

(REPORTING FROM THE FRONT - Curator: Alejandro Aravena)Ma qualche presenza sembra comunque una concessione obbligata. Tadao Ando ripropone con uno spettacolare plastico di Punta della Dogana, la questione degli obelischi in cemento, previsti e mancati a causa della burocrazia italiana (e della mentalità veneziana). Il problema, però, oltre al turismo di massa è anche il “capitalismo culturale” a Veneiza. Norman Foster propone un sistema modulare di volte autoportanti in mattoni, per infrastrutture a basso costo in Africa: un progetto interessante, ma è difficile non pensare che Foster sia anche uno dei principali autori di Astana, la capitale del Kazakistan: una città che condensa gran parte di ciò contro cui si scaglia la Biennale di Aravena. C’è Renzo Piano che presenta il suo laboratorio G124 con giovani architetti sulle periferie e l’ospedale per Emergency in Uganda (ma anche il nuovo centro culturale a Mosca), mentre al limite dell’ovvio è la presenza di Shigeru Ban (che propone un ponte in bambù tra le due Coree) o Kengo Kuma, efficace anche dal punto di vista politico è poi la proposta di Amateur Architects (Pritzker Prize nel 2012) sulla preservazione dei villaggi in Cina. Grandi novità, quindi, nuova aria? Fino a un certo punto. Nel 2000 la Biennale di Fuksas si intitolava 'Less Aestethics, More Ethics', ed era dedicata alle megalopoli e alla «necessità di un nuovo modo di relazionarsi con l’architettura, privilegiando, rispetto all’estetica di un progetto, la ricerca di nuove risposte etiche per affrontare le sfide poste dalla realtà». Negli anni 70 il processo partecipativo e l’autocostruito erano parole d’ordine, che poi siano arrivati i risultati è altro discorso. Tanti disastri architettonici e quindi sociali degli scorsi decenni sono dovuti alla ricerca di una maggiore densità abitativa.

Solano Benitez (Alessandro Beltrami)Perché questa volta dovrebbe essere diverso? Alcuni dei progetti presentati ricadono in vizi antichi. Eppure qualche segnale di speranza c’è. Innanzitutto il momento etico non è separato da quello estetico. Aravena lo ribadisce più volte: se il progetto è etico e sostenibile ma mediocre o banale è destinato al fallimento. Propone poi anche progetti, grandi e piccoli, non propriamente “sostenibili”, ma intrisi di bellezza e «grandezza », come un obiettivo necessario. In seconda istanza, appare chiaro che un certo tipo progettazione condivisa sia una chimera. Le persone conoscono i propri problemi, ma ne hanno una visione – per tornare alla metafora della fotografia – a terra. La responsabilità dell’architetto, nel cambiare punto di vista, è di leggerne la globalità senza separarsene o calpestarla. Ma, piaccia o meno, l’architettura, buona o cattiva che sia, non è democratica. Basterebbe che fosse umana.
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