martedì 10 giugno 2014
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Come definire il rapporto tra Enrico Berlinguer e i cattolici? Una passione mai del tutto corrisposta, terminata con la morte dei principali protagonisti. Oppure: un amore che non poteva che finir male per la distanza intrinseca tra comunisti e cattolici, per il loro Dna troppo diverso... E il compromesso storico: capolavoro, sia pure incompiuto, o solenne pasticcio? La sensazione è che quei fatti, oggettivamente remoti, siano troppo prossimi. Gli anni sono tanti, ben 30 dalla morte di Berlinguer; ma nella memoria dei protagonisti sono vicinissimi...Prendi Gianni Gennari. Lui c’era, eccome se c’era. Pienamente e convintamente coinvolto. Parla della seconda metà degli anni 70 come se fossero cosa dell’altro ieri. Gennari era giovane teologo a Roma, dove ingaggiava epici corpo a corpo con il vicario Poletti. «Era il 1973. Celebravo messa alla Natività. E ogni domenica davanti a me c’erano Franco Rodano e Tonino Tatò con le consorti». Tutto comincia lì. «Tatò mi confida la volontà di Berlinguer di uscire dalla conventio ad excludendum>. Sapeva che un discorso anti-religioso in Italia non avrebbe mai avuto successo. Era necessario liberare il Pci dall’ideologia marxista-leninista».Comincia una collaborazione fatta di incontri settimanali a Botteghe Oscure, che ovviamente attirano su Gennari sospetti e inimicizie, anche perché nel 1974 era stato tra chi non vedeva opportuno il referendum sul divorzio, ormai legge della Repubblica, preferendo un impegno della Chiesa nella formazione dei fidanzati, nell’educazione all’amore. Poi, quando nel 1976 il vescovo Bettazzi invia la famosa lettera a Berlinguer, Tatò chiede a Gennari di aiutarlo a scrivere la risposta per la parte religiosa. Mesi di lavoro, la replica uscirà un anno dopo. Ma l’interesse di Berlinguer per il mondo cattolico era sincero, o pura tattica? «Credo fosse una strategia sincera. Sapeva che senza un rapporto non conflittuale con la Chiesa non avrebbe mai avuto spazio, cosa che a sinistra molti non capirono allora e non capiscono neanche oggi, gli stessi che rimproverano a Renzi di andare a messa». Per Gennari, Berlinguer non si discosta di molto dallo stesso Togliatti, che voleva un partito e uno Stato «né teista né ateista né antiteista».E la Chiesa? «Chiusura pressoché totale – ammette Gennari – con l’accusa che si trattava di pura tattica, un imbroglio. Berlinguer rimase molto deluso. Io divenni il "prete rosso", pur non essendo mai stato comunista. Poi morirono Moro, lui e Rodano. E a quel punto, con Natta e Occhetto, il disarmo ideologico verso i cattolici finì all’angolo, dimenticato». Un sogno fallito, per la doppia opposizione di parte dei dirigente Pci e della Chiesa.Anche il sociologo Paolo Sorbi è testimone diretto dei fatti, dirigente nel Pci lombardo dal 1975, proveniente da Lotta continua. Oggi, da ex presidente del Movimento per la vita ambrosiano reduce della battaglia sulla legge 40, rivendica la «continuità culturale» con quegli anni. «Paradossale? No. Da almeno 25 anni i pesanti e gravi errori della sinistra non mi appartengono. La scelta di convolare a nozze con la cultura liberal-radicale l’ha portata a condannarsi alla sconfitta continua». Sorbi esce dal Pci nel 1989 per «ragioni bioetiche», quando si rende conto che il Pci, poi Pds e Ds, essendo un partito «radicale di massa», non sarà mai nazionale e popolare.E Berlinguer? «Cresco con lui pur facendo riferimento a Tronti, Asor Rosa e Cacciari, e alla rivista Laboratorio politico. Cerco di approfondire il filone del cattolicesimo interno alla sinistra, da Claudio Napoleoni a Franco Rodano, per una cultura che metta al centro la persona umana. La mia cultura. Così ho sostenuto con convinzione il compromesso storico, come lezione pragmatica e non come ideologia». Ma tutto finisce, e per Sorbi la colpa è soprattutto del terrorismo rosso. L’uccisione di Moro dà un colpo mortale alla collaborazione tra Pci e Dc. «Ero furibondo – dice, e anche per lui è come se fosse ieri – dovendo assistere al ritorno alla chiusura nei bastioni della sola sinistra, rifiutando il possibile incontro con i cattolici. La generazione più giovane, erede di Berlinguer, sposa il filone liberal-radicale privo di valori, l’azionismo che si rifà a Bobbio, Dahrendorf e Gobetti, da sempre avversari delle linea nazional-popolare. I cattolici, come me, si ritrovano rifiutati». La linea berlingueriana, sostenitrice della centralità della persona e della diversità anticapitalistica, perde. E per Sorbi avrebbe continuato a perdere, senza Renzi.Un terzo protagonista, Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Istituto Gramsci, legge quegli anni in chiave politica: «Berlinguer non introduce sostanziali novità dottrinali rispetto a Togliatti. La sua grande novità sta nell’elaborazione politica. Nel compromesso storico». Per comprenderlo, occorre capire quegli anni di forte instabilità, nazionale e internazionale. Il conflitto, cominciato con le bombe del 1969, mette a rischio la stessa democrazia in Italia, a cominciare dalla Dc, perno del sistema politico. «Moro comprende che occorre allargare la base democratica avvicinando il Pci alle responsabilità di governo, trovando convergenze e coesione. Berlinguer, da parte sua, raccoglie la sfida di Moro. È interessato a valorizzare, nella Dc, la componente del cattolicesimo democratico. Il dialogo diretto con la Chiesa non registra nulla di veramente significativo. Ma con la Dc sì». Poi muore Moro, il contesto si stabilizza, la Dc sceglie il pentapartito e al Pci non rimane che giocare la carta dell’alternativa. «Ma nella solitudine. E qui Berlinguer mette in campo, non senza enfasi, la questione morale, la preveggente denuncia della degenerazione del sistema politico». Ma arriva il 1984...Letture diverse. Diversissima quella di Cesare Cavalleri, che premette: «Io sono drastico». Eccome: «Il Pci ha sempre sbagliato». Sempre? «Sì, nei grandi appuntamenti ha sbagliato. Sbagliò con il divorzio e l’aborto e ha continuato a sbagliare. D’altronde, sbagliata era la sua antropologia. Non mi permetto di giudicare la coscienza di Berlinguer o di altri. Constato soltanto che l’approccio comunista è sempre stato sbagliato. Non ha saputo costruire un’alternativa alla Dc. Il consociativismo fu un pasticcio. L’avvicinamento con i cattolici non è mai davvero riuscito». Tutto sbagliato dunque, anche perché è mancato, e manca tuttora, qualcosa di fondamentale: «L’autocritica. Siamo ancora in attesa di un’ammissione piena degli sbagli compiuti nel passato comunista. E questo pesa sulla democraticità stessa del Pd». Se per altri il compromesso storico è un meritevole tentativo di uscire dall’impasse e salvare la democrazia stessa in Italia, per Cavalleri è solo «un grosso equivoco, che porta alla paralisi della democrazia. Ma non poteva funzionare, senza una previa democratizzazione del Pci», autocritica compresa. «Fu un arco di ponte rimasto sospeso nel vuoto». Tutto termina quando il Pci si trasforma in «partito radicale di massa». E qui, per una volta, Cavalleri trova qualche compagno (amico?) di strada.
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