giovedì 21 settembre 2017
A 18 anni il baffuto difensore dell'Inter, dall'oratorio di Settala (Milano) salì sul tetto del mondo con gli azzurri di Bearzot
Bergomi, lo zio Mundial
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In quell’anno lavoravo in ospedale, ero un infermiere professionale e prestavo servizio nel reparto di Medicina II, dove suor Silvina era la caposala. Il 23 giugno la Nazionale di calcio pareggiò 1 a 1 contro il Camerun e grazie a quello striminzito e chiacchierato risultato si qualificò per il girone successivo: avremmo dovuto incontrare due avversarie temibili, forse insuperabili: una era l’Argentina dell’astro nascente Maradona, l’altra era il Brasile di Socrates e Falcao. Come avrebbero detto gli americani : mission impossible! Anche perché l’Italia calcistica arrivava dallo scandalo delle scommesse con squadre, tipo il Milan, finite in serie B, con calciatori che subirono pesanti punizioni tra cui Paolo Rossi a cui era stata comminata una squalifica di 2 anni. L’avvicinamento ai mondiali di Spagna era stato modesto nelle prestazioni, e la stampa schierata criticò le scelte del selezionatore Bearzot.
L’Italia come Paese non era messa meglio, l’inflazione viaggiava intorno al 16%. Quando l’arbitro fischiò la fine della partita con il Camerun, forse sotto l’effetto del caldo di Lombardia, così caldo quando è caldo, io, ed altri 4 tifosi accaldati, decidemmo di prenderci qualche giorno di ferie e di andare a Barcellona per vedere nell’ordine Italia-Argentina, che avremmo perso, e quindi 3 giorni dopo Italia-Brasile, che avremmo perso e dopodiché fatto ritorno a casa: totale 4 giorni di ferie. Suor Silvina fece un poco di fatica ad accordarmeli, ma dietro la promessa che allo scadere del quinto giorno sarei rientrato in servizio, firmò il lasciapassare.

Inaspettatamente vincemmo contro l’Argentina, quindi dovetti fare la prima telefonata a suor Silvina per chiedere un prolungamento di ferie di 3 giorni poiché la prossima partita sarebbe stata contro il Brasile il 5 luglio, ma poi, dissi rassicurando la suora, poi sicuramente saremmo tornati a casa. Io e la Nazionale.

La partita si svolse allo Stadio Sarrià, dove ci giocava la seconda squadra di Barcellona l’Espanyol, conteneva quasi 40mila spettatori. Io ed i miei amici prendemmo posto dietro ad una delle 2 porte verso le 14.30, avevamo gli zaini pieni d’acqua perché faceva molto caldo; i tifosi brasiliani cantavano e ballavano in continuazione, noi italiani invece avevamo la consapevolezza di essere solo una parte della coreografia di quell’evento. Eravamo obbligati a vincere altrimenti le mie vacanze e quelle degli Azzurri sarebbero terminate quel pomeriggio; i brasiliani ridevano e provavano compassione per il nostro obbligo.
Fischio d’inizio. Vedevo il portiere Valdir Perez come se fossi al campetto del mio oratorio, stavo 4 gradini sopra di lui. Dopo pochi minuti succede l’inaspettato: Pablito Rossi insacca il pallone di testa, saltiamo e urliamo di gioia ma non tanta perché sappiamo che durerà poco: infatti Socrates, con una a azione sublime, pareggia per i verde oro poco dopo.
Al 34’ accadde un’altra cosa inaspettata. Collovati lo stopper titolare della Nazionale, è costretto ad uscire per infortunio; tutto il pubblico vede che, inginocchiato mentre si sta allacciando le scarpe, Beppe Bergomi sta per esordire nel suo primo Mundial. I brasiliani non conoscono il ragazzo cresciuto all’oratorio milanese di Settala, gli italiani sanno a malapena che ha 18 anni, io dico ai miei amici «è lo Zio gioca nell’Inter».

Tutti, io compreso, abbiamo tremato perché vedere un ragazzino andare a marcare il centravanti del Brasile non è roba da poco. Li vedevo gli occhi dello Zio, erano preoccupati, e forse lui stesso per qualche minuto non seppe mai bene dove si trovasse. Per fortuna nostra e dello Zio tutti i centravanti del Brasile non sono forti allo stesso modo, e quello di quel pomeriggio era abbastanza venuto male: ad un certo punto, nemmeno lui seppe come, si trovò solo davanti a Zoff prese la mira e grazie a dio il suo piede bitorzoluto scagliò la palla quasi in fallo laterale.
Nel frattempo eravamo 2 a 1 per noi, quando un biondino riccioluto di nome Falcao scaricò tutta la sua rabbia contro gli italiani con un sinistro che toccò lievemente la coscia sinistra dello Zio, e la palla passò vicinissima alla mano sinistra di Zoff e, ahinoi, morì nella rete.
L’acqua e la voce erano quasi esaurite, quando Bruno Conti batte un corner per noi, la parabola è alta e arquata, niente di buono per un centravanti che la possa colpire di testa, e poi è arretrata: due brasiliani si avventano, lo Zio è lì a rompere le scatole, vuole timidamente solo impedire che la colpiscano bene, vuole colpirla a sua volta, lui che ha solo 18 anni ed è in area del Brasile di fianco a Socrates, lo lo Zio che di mestiere fa il difensore ma si trova lì dove abitualmente sta un attaccante; la palla si innalza insignificante e cade fuori dall’area, uno dei nostri la indirizza verso la porta, Pablito, lui sì che è un rompiscatole, corregge la traiettoria e la spedisce gioiosamente in rete! 3-2 per noi si va in semifinale!
Conservo ancora dei ricordi indelebili di quel pomeriggio: lo stadio, che ora non esiste più perché dopo averlo fatto saltare con della dinamite ci hanno costruito un centro commerciale, gli occhi smarriti dello Zio, i brasiliani che hanno smesso di cantare bruscamente, gli italiani disidratati ma felici. Ma soprattutto mi è rimasta dentro la paura dello Zio quando Bearzot gli ha detto di allacciarsi le scarpe.
Forse la paura era solo mia e degli italiani tutti che vedevano il loro bambino con i baffi da capitano degli Alpini entrare nella vita dei grandi. Forse lo Zio non ha mai avuto paura, forse il suo sguardo diceva lo sconcerto e la fascinazione dell’avventura a cui era chiamato. Forse a 18 non si ha paura, nemmeno di affrontare il Brasile. Io di paura invece ne ho provata tanta, perché dopo aver avuto il prolungamento di ferie per poter assistere alla semifinale con la Polonia, Pablito e lo Zio mi hanno messo nei guai: vinsero di nuovo e,ahimè, dopo 3 giorni si sarebbe svolta la finale a Madrid contro i tedeschi.



Suor Silvina disse che mi avrebbe fatto licenziare, a nulla valsero le mie attenuanti tipo che una finale Mondiale forse la si vede una volta nella vita, o che avevamo anche i biglietti svendutici dai brasiliani, o che lo Zio avrebbe dovuto marcare il panzer della Deutch Divisionen: Herr Kalle Rumenigge.
Ritornammo per tempo perché io la domenica 11 luglio dovevo prendere servizio con il turno dalle 6 alle 14. Alla sera io e i miei compagni di viaggio eravamo stretti davanti al televisore, la partita si giocò al Santiago Bernabeu ma a noi sembrava di essere sui gradini del Sarrià.
Tutte le volte che inquadravano lo Zio io provavo paura, ma lui non ne aveva, anzi, ad un certo punto si è trovato in area dei tedeschi, lui che era un difensore, e con la leggera spensieratezza dei 18 anni, passò la palla a un’altro suo collega, dopodiché Tardelli si mise a urlare e con lui tutta l’Italia. Forse anche suor Silvina.

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