giovedì 20 novembre 2014
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​Nel Paese delle stragi impunite e dei delitti che rimangono irrisolti, anche il mondo dello sport continua ad alimentare i suoi misteri. Sono storie che, con il tempo, rischiano di finire irrimediabilmente insabbiate.
Bergamini, non fu suicidioÈ un arcano ormai il caso di Denis Bergamini, il 27enne centrocampista del Cosenza la cui fine avvenuta il 18 novembre 1989, era passata - complice anche una “stampa distratta” - sotto la voce «suicidio». Un abbaglio clamoroso, sul quale si è tornati a fare luce nel giugno del 2011 con la riapertura dell’indagine da parte della Procura di Castrovillari che ha formulato l’ipotesi di «omicidio volontario». Al momento della morte, avvenuta sulla strada statale 106 Jonica (nei pressi di Roseto Capo Spulico), assieme a Bergamini c’era la fidanzata Isabella Internò, ora indagata per concorso in omicidio. La ragazza lo aveva seguito a bordo della Maserati, poi era stata testimone di quello che ha sempre descritto come un «suicidio volontario»: Bergamini, a suo dire, si sarebbe gettato sotto un camion che trasportava oltre 150 quintali di frutta. Un dettaglio importante, perché il camion guidato da Raffaele Pisano (indagato per favoreggiamento) non aveva praticamente scalfito il corpo di Bergamini. All’epoca la perizia medico legale del professor Francesco Maria Avato parlava di «sormontamento di un corpo disteso a terra». Il corpo di Bergamini, dunque, venne trasportato già cadavere sotto le ruote del camion. «La perizia di Avato venne totalmente ignorata, nonostante fosse l’unica e disposta in incidente probatorio. Perché? Mistero...», dice Eugenio Gallerani, l’avvocato della famiglia Bergamini. E i misteri intorno alla strana fine del centrocampista ucciso verso sera sono tanti, troppi. Il primo a tentare di rompere quel velo spesso di omertà, che da sempre tiene in ostaggio il mondo del calcio, fu l’ex attaccante di Milan e Roma anni ’60-’70 Carlo Petrini, autore del libro inchiesta Il calciatore suicidato. Petrini indicava già la via dell’omicidio che poteva essere legato al rifiuto da parte del giocatore di trasportare droga durante le trasferte del Cosenza al Nord o il non aver accettato le condizioni per “aggiustare” il risultato della partita Avellino-Cosenza. Piste che sono state seguite e in parte confutate, anche dalla trasmissione di Raitre “Chi l’ha visto?, e che hanno condotto a una certezza, per la quale si attende solo la riapertura del processo: quello di Bergamini è stato un omicidio.
Pantani, la coca e VallanzascaNon è, invece, così certa la fine di Marco Pantani, trovato morto nel residence Le rose di Rimini, il 14 febbraio 2004. Come per Bergamini, il caso ha subìto una scossa solo dopo dieci anni, pieni di ombre e di appelli disperati da parte di mamma Tonina, la madre del campione che ha sempre gridato all’«assassinio» del figlio. «Un giorno, magari fra trent’anni, si tornerà a parlare della morte di Pantani, come di una fine misteriosa simile a quella di Luigi Tenco», ha detto ad Avvenire Philippe Brunel, giornalista del quotidiano sportivo francese L’Equipe, il quale nel suo libro “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” puntava il dito su una «morte scabrosa». Brunel nel ricostruire la vicenda, più “gialla” della maglia che Pantani indossò fino alla fine del Tour de France del ’98, ipotizzava la presenza di altre persone nella stanza del “Pirata” al momento del suo decesso e denunciava i gravi errori investigativi. «C’è stata una chiara volontà di chiudere velocemente una brutta pagina, in cui figuravano due elementi da allontanare in fretta: la morte del campione e cancellare una tragica fine legata al torbido mondo della droga», le conclusioni di Brunel cadute nella ridda delle ipotesi che vanno a sommarsi alle recenti rivelazioni dell’ergastolano Renato Vallanzasca. Dalle memorie delle sue prigioni, il bandito della Comasina ha ripescato la presunta combine architettata dalla camorra al Giro d’Italia del 1999. Il Giro che Pantani stava dominando e nel quale, a Madonna di Campiglio, venne clamorosamente fermato «onde favorire il banco delle scommesse che avrebbe fruttato miliardi di vecchie lire ai boss che avevano puntato sulla squalifica del “Pelatino”». Nel 2008 Vallanzasca raccontò questa vicenda, raccolta tra le mura del carcere milanese di Opera, ma poi tacque di fronte al magistrato e non confermò la “storiaccia” neppure al cospetto di mamma Tonina. Ora l’ex “bel Renè” è stato riascoltato su quella che può essere considerata la “morte sportiva” di Pantani. Il “Pirata” venne fermato per l’ematocrito alto, ma non fu mai trovato positivo ai controlli antidoping. Pantani è uscito incensurato da tutte le inchieste svolte nei suoi confronti da ben sette procure. Così, tra la sua fine sportiva e quella reale, si continua a brancolare tra i tanti indizi che fanno propendere per l’omicidio legato a un regolamento di conti con gli spacciatori o all’overdose. Dalla Francia il documentario di Stade 2 propende per la seconda e a questo stesso tragico traguardo giunge anche il fresco di stampa “Delitto Pantani. Ultimo chilometro (Segreti e bugie) - Nda Press - di Andrea Rossini. Viene da domandarsi: verremo mai a capo della verità?
Beatrice, ucciso dai “raggi assassini”Chiede «verità» dal 16 dicembre 1987 Gabriella Bernardini, la vedova del mediano della Fiorentina Bruno Beatrice, stroncato a 39 anni da una leucemia linfoblastica. Malattia fulminante causata da «un ciclo scellerato di raggi Roentgen», ai quali il calciatore si sottopose nel 1976. Quella di Beatrice è la fine madre da rileggere all’interno del “Giallo della Fiorentina” degli anni ’70, una squadra in cui la sperimentazione medica, accertata dai Nas di Firenze, può aver causato altre quattro morti sospette: quelle di Nello Saltutti, Ugo Ferrante, Giuseppe Longoni e Massimo Mattolini. Oltre alla malattie di Domenico Caso (tumore), Giancarlo Antognoni (infarto) e Giancarlo Galdiolo che è l’ultimo degli oltre 50 casi di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica) o Morbo di Gehrig riscontrati nel mondo del pallone. Il fascicolo d’inchiesta sul caso Beatrice è stato archiviato nel 2009, da allora i figli, Alessandro e Claudia, hanno gridato: «Giustizia per chi non ha più detto babbo». Lo hanno fatto tramite la loro “Associazione vittime del doping” alla quale però, l’unica denuncia sinora pervenuta è stata quella della moglie di Giuliano Taccola: la vedova del 26enne centravanti della Roma ucciso da una iniezione letale prima di un Cagliari-Roma del marzo 1969. Ennesimo mistero dello sport, avvolto in 45 anni di solitudine.
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