giovedì 3 luglio 2014
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Il concetto di bene comune, categoria-chiave del pensiero politico e dell’insegnamento sociale della Chiesa, stenta oggi a essere assunto come punto di riferimento nelle società occidentali. A partire da questa «crisi» ragiona lo storico Giorgio Campanini (foto a sinistra) nel volume Bene comune. Declino e riscoperta di un concetto edito dalle Edizioni Dehoniane di Bologna (pp. 104, euro 10). Dopo la grande stagione solidaristica del secondo dopoguerra, l’accentuato individualismo che caratterizza la post-modernità tende a enfatizzare le rivendicazioni autoreferenziali e a ridimensionare l’intervento pubblico, interpretato come ostacolo nei riguardi del libero agire dei singoli. Confinato tra i concetti gloriosi di stagioni passate, anche a causa della frattura intervenuta tra etica e politica, il bene comune è tuttavia un’istanza destinata a riproporsi in uno scenario deturpato dall’esasperazione dei personalismi, dalle chiusure identitarie e corporativistiche e da una rete di privilegi riservati a pochi. Anche l’emergere di nuove problematiche, a partire da quelle ambientali, che non possono essere affrontate a livello locale ma esigono una visione globale. Rivisitata in una nuova prospettiva, l’antica categoria di bene comune si presenta, in questo modo, come un fondamentale banco di prova dei diritti umani. Pubblichiamo alcuni stralci dal capitolo conclusivo, dove Campanini allarga la questione al «governo mondiale» nell’epoca della globalizzazione.In un memorabile discorso tenuto a Città del Messico il 6 novembre 1947, in occasione della Conferenza generale dell’Unesco, Jacques Maritain – richiamandosi alla drammatica esperienza dell’appena conclusasi seconda guerra mondiale – poneva come condizioni necessarie per la costruzione di un mondo permanentemente abitato dalla pace e dalla giustizia da una parte il riconoscimento, a opera di tutti e ovunque, dei fondamentali diritti umani e, dall’altra, la creazione di una comunità mondiale dotata di poteri decisionali e fondata sul presupposto dell’abbandono del concetto (o forse del «mito») della sovranità nazionale. L’Organizzazione delle Nazioni Unite, che stava allora prendendo corpo, gli appariva come un primo passo in questa direzione.  A oltre sessant’anni di distanza da quel discorso, e nonostante alcuni passi avanti compiuti in questa direzione, occorre riconoscere che il mito della sovranità nazionale sta ancora, come un pesante macigno, davanti a ogni progetto di «nuovo ordine» mondiale (un «nuovo ordine» che non sia quello parziale e fittizio della globalizzazione economica e informatica). Nonostante questa constatazione di fatto, il sogno, o l’utopia, di un «governo mondiale» è radicato nella storia dell’Occidente (meno presente, invece, in altre culture, relativamente meno aperte). Sia pure limitatamente a una sola area del mondo, questa aspirazione all’unità è stata a lungo coltivata nel mondo greco e ha trovato una prima seppur precaria realizzazione nell’impero di Alessandro Magno (e in quella cultura filosofica, di vasto respiro universalistico, che ne ha rappresentato la base ideologica). È continuata con l’idealizzazione di un impero romano unificato dal diritto e avente come suo epicentro Roma caput mundi. Ha conosciuto un’ulteriore tappa con l’idealizzazione della medievale res publica christiana. È risorta in forma laica, in antitesi all’affermazione degli Stati nazionali nella proposta della 'pace perpetua' di Bernardin di St. Pierre e di Immanuel Kant e di altri teorici dell’illuminismo; e in forma religiosa, all’inizio dell’età del romanticismo, nel sogno del ritorno a una mitica e utopica “cristianità”, quella idealizzata da Novalis e poi ripresa dai pensatori romantici del primo Ottocento, sino al grande affresco della società universale del genere umano teorizzata nelle ultime pagine della Filosofia del diritto di Antonio Rosmini. Vi è tuttavia una condizione previa da verificare, ed è il diffuso e convinto consenso dei cittadini, senza il quale un’ipotetica comunità mondiale sarebbe priva di solide basi e sarebbe destinata a fallire. Se in passato, come già si è rilevato, è stato possibile ipotizzare grandi comunità politiche (anche se non propriamente «mondiali») realizzate grazie all’egemonia politica e militare di grandi potenze imperialistiche, questa strada non appare oggi più percorribile, sia per l’oggettiva difficoltà dell’impresa, sia perché quanti in linea teorica potrebbero intraprenderla (in particolare, nell’attuale contesto, gli Stati Uniti d’America, unica potenza che appare veramente «mondiale») non sembrano disponibili all’uso generalizzato della forza: oltre tutto, in un contesto bellico do- minato dall’incombente minaccia atomica, un’ipotetica guerra di espansione mondiale avrebbe come risultato non il dominio, ma la parallela distruzione dei vincitori e dei vinti (in realtà, tutti perdenti).  È ben vero che una qualche forma di «dominio» è quella che viene esercitata attraverso il controllo dell’economia, il quasi-monopolio della comunicazione massmediatica, l’imposizione di fatto universale della lingua e indirettamente della cultura (anglo-americana); ma si tratta pur sempre di un’influenza, di un condizionamento, e comunque di un dominio limitati e parziali, non assimilabili a quello – ancor più limitato e parziale – degli antichi imperi. Di qui la consapevolezza che a un’autorità mondiale e a una ipotetica comunità di popoli sopranazionali si potrà pervenire soltanto attraverso un largo consenso di base, che potrebbe e dovrebbe iniziare dai paesi a più antica e radicata democrazia e imporsi a poco a poco, quasi per effetto della forza stessa delle cose, a tutti i popoli; ma si tratterà certamente di un cammino lungo e difficile, per la radicata persistenza (e a volte per il risveglio, in forme talora esasperate) dei nazionalismi e dei particolarismi regionali e locali: quasi che alle spinte per l’unificazione del mondo si contrapponessero quelle per la costruzione di tante «piccole patrie» autosufficienti e autocefale.

 

La prima condizione è quella della reale diffusione, e anzi universalizzazione, della cultura dei diritti umani e dunque delle fondamentali libertà civili. Solo Stati (e ancor più società) genuinamente e autenticamente democratici possono rinunciare senza rischi alla loro sovranità, nella consapevolezza che questa cessione avviene in favore di organismi ispirati ai principi e alle regole della democrazia.

La seconda condizione è che la parziale cessione della sovranità sia inserita in un sistema di «pesi e contrappesi » analogo a quello che ha caratterizzato le origini dei sistemi democratici moderni, in modo da costruire una bilancia dei poteri che eviti i rischi del centralismo e, correlativamente, dell’autoritarismo (al limite del totalitarismo, questa volta non più statuale ma mondiale, e dunque ancor più pericoloso).  La terza condizione è che questo processo – da attuarsi essenzialmente a livello istituzionale e con il determinante concorso degli specialisti di diritto internazionale – sia accompagnato da una cultura diffusa ancorata ai principi della giustizia, della solidarietà, della comunanza di doveri e di interessi fra tutti i popoli, capace di risolvere i ricorrenti conflitti attraverso la mediazione e non con il ricorso alla violenza e alla guerra. È appena il caso di mettere in evidenza che il cristianesimo – sia nella sua forma propriamente religiosa, sia per l’influenza che esso continua tuttora a esercitare sulla cultura – ha un importante ruolo da svolgere in questo processo. La più universalistica delle religioni – quella che ha saputo meglio superare i particolarismi nazionali – appare particolarmente attrezzata in vista di questo lento e laborioso processo di unificazione, sostanziale e non soltanto formale, del mondo. Ha scritto una volta Alexis de Tocqueville, ne La democrazia in America: «È necessario che tutti quelli che si interessano all’avvenire delle società democratiche […] facciano sforzi continui per spargere in seno a esse l’amore dell’infinito ». Un poco paradossalmente, è dall’«amore dell’infinito » che nasce anche la passione per la finitezza: in questo senso quella «fedeltà alla terra» che, sia pure nel particolare contesto dell’Ottocento, Nietzsche rimproverava ai cristiani di non avere – ma che pure appartiene a buon diritto alla migliore tradizione del cristianesimo – appare come una delle condizioni necessarie al fine di costruire, attraverso un governo mondiale, un mondo unito e pacificato. Su questo terreno, coscienza religiosa e coscienza laica possono felicemente incon-trarsi: in questa prospettiva, l’idea di bene comune può svolgere un’essenziale funzione di stimolo e di sollecitazione.

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