martedì 12 marzo 2019
Tra i detenuti di Rebibbia, il cantautore racconta la toccante esperienza terapeutica e artistica: «Grazie alla musica ho visto riaffiorare l’anima delle persone e rifiorire la speranza»
Belloni, canzoni dal carcere: «Svelo le curve della vita»
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La violenza sulle donne, gli scafisti, la mafia, il terrorismo: capita spesso, che dischi di musica cosiddetta leggera trattino temi come questi, magari pure bene. Capita però di rado che ne trattino partendo solo da esperienze di vita vissuta: raccolte là dove si scontano gli errori che hanno portato alle tragedie suddette, in un carcere. È dunque un’opera unica nel suo genere, oltre che valida per qualità ed essenzialità di scrittura, l’album Tutto sbagliato con cui il cantautore-chitarrista Emanuele Belloni, che debuttò nella musica d’autore quarantenne nel 2013, dà seguito alla propria opera prima E sei arrivata tu. In Tutto sbagliato, edito da Squilibri coi testi delle canzoni tradotti anche in tedesco perché lassù Belloni è seguito, e scritti di detenuti ed ex-detenu- ti a rimarcare la sincerità del progetto, l’artista (coadiuvato dall’organettista Riccardo Tesi) interpreta le memorie vive raccolte come volontario nel braccio G11 del carcere romano di Rebibbia. E nell’album sfilano così il dramma dell’incarcerazione nell’assorta Davanti a me, il silenzio degli attimi precedenti la bomba alla stazione di Bologna nella toccante 10 e 25, il dolore squassante delle migrazioni in una Dimmi che lavoro fai tanto vera da far male. Ma il vertice di Tutto sbagliato è forse Solo cose più buone, canzonerap scritta e cantata con un detenuto, che dona all’ascolto una forte quanto delicata sintesi delle anime evocate dall’intero cd: le anime sospese di un luogo dove la quotidianità a tutti ben nota si fa utopia, e l’uomo deve cercare un senso nuovo al proprio vivere, con sé stesso e con gli altri.

Come arriva il cantautore Emanuele Belloni a Rebibbia? Che cosa fa lì, che cosa voleva capire?

Rebibbia è stato riannodare il filo di un percorso. Vent’anni fa a Milano con la Caritas avevo assistito dei ragazzi del carcere minorile Beccaria, poi ho cambiato città, e Rebibbia con l’associazione “Chi come noi” è stata per me occasione di tornare ad avere incontri osmotici fra chi sta dentro e chi fuori. In una sala di musica abbiamo confrontato punti di vista umani molto distanti: noi persone libere non possiamo capire come i carcerati si sentano eroi romantici, non nel senso che vedono il bene nell’errore, ma perché scelgono di accettarne le conseguenze per provare a ripararle. E ripararsi.

Qual è stata l’esperienza più forte, choccante, commovente, inedita che ha vissuto in carcere?

Il giorno che organizzammo con Legambiente un concerto in un’area comune: sono situazioni cui sono ammesse anche le famiglie, e un ragazzo che suonava il basso non vedeva i suoi. Sbagliava di continuo, era in ansia. Quando ha scorto la figlia ha lanciato via lo strumento e riabbracciato i famigliari. In quella bambina ho rivisto la mia, di figlia, e sono stato costretto a pensare a come sono fortunato: di lì è nato il pezzo finale del disco, Dolce, dolce, dolce, in cui un rapporto padre-figlia indica una via d’uscita dell’anima da qualunque carcere.

Ma che obiettivo aveva, scrivendo e interpretando un intero album su storie vere di carcerati?

Anzitutto non puntare il dito mai, non giudicare. E oltre al racconto dei fatti che hanno portato alle condanne, far conoscere come ogni colpevole viva la pena dietro le sbarre. Chi in modo ipnotico, chi da gradasso, chi impaurito, sempre dentro un percorso lungo: con tante voci cui volevo dare sfogo. Spero che chi ascolterà usi tanta pietas e scelga un abbraccio ideale con queste persone: quello che voglio sottolineare è che anche in carcere non deve mai essere dimenticato l’uomo, anche lì ci dev’essere il segno che la vita contiene amore. Alcune storie che canto parlano di assassini efferati, certo: ma l’uomo c’è sempre, pur se a un livello disastrato.

Far musica in carcere aiuta, e come?

Sono andato a Rebibbia ogni venerdì per un anno e i ragazzi aspettavano gli incontri, alla fine, dunque vuol dire che ne ricavavano molto. Per me sentire quanto creavano implicava vedere rifiorire speranza in loro. Certo chi decideva di suonare o scrivere nel progetto era più indifeso, doveva tirare fuori sé in un contesto difficile. Ma se ci riusciva cresceva.

È un progetto che continua, il suo, a parte il cd?

Continuo ad operare con l’associazione. Purtroppo a Roma il gruppo si è sciolto, alcuni trasferiti altri scarcerati, ma con Mauro Armuzzi, che ha scritto e rappato Solo cose più buone, vorremmo continuare. L’hanno trasferito a Pescara, spero di andare lì.

Il cd sarà anche in tour, e pure all’estero: come?

In Germania, parlando il tedesco, spiegherò queste storie che canterò sempre in italiano: è un pubblico attento, penso possa essere un’esperienza utile a me quanto a loro. In Italia miro a suonare in altre carceri, in trio, se possibile unendo alla musica dei momenti di riflessione: su cosa si possa fare da fuori per chi è dentro, su quali prospettive pure di scoperta e racconto di sé vadano date ai detenuti.

Ma alla fine per lei far musica cos’è? L’impressione è che per i detenuti sia stata terapia, grazie a lei…

Per me è la stessa cosa. La musica aiuta ad affrontare le curve della vita: ma solo spogliandosi di ogni orpello, dentro un percorso catartico in cui occorre avere l’umiltà di gettare via i narcisismi per capire cosa può diventare, se vuoi, la tua parola. Se ci riesci, la cosa ti arricchisce e ti dà benzina: per andare avanti, e per fare altra musica.

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