venerdì 16 maggio 2014
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Un arbusto esile piantato nel punto dove il corso d’acqua si ramifica, resistendo alla corrente, crea attorno a sé un piccolo gorgo che ne rivela l’esistenza altrimenti impercettibile, prima che l’acqua torni a fluire calma tra i forti argini di roccia. È il muto testimone di un evento che continuamente si compie, assieme alla luce fresca che accompagna il paesaggio nell’annuncio della sera, comprimario dei tre personaggi in primo piano; Cristo, al centro, come quell’arbusto crea un vortice tra la Madre («Mentre gli occhi gonfi di pianto quasi emettevano gemiti», recita il cartiglio posato sul sarcofago) che gli si stringe quasi a formare col Figlio un nuovo grembo e san Giovanni che, sbilanciato a destra, sembra afferrarvisi per non esserne trascinato via. La Pietà di Brera di Giovanni Bellini, intreccio inestricabile tra il sentimento del sacro e la sua percezione “naturale” e pulsante in ogni carne, rappresenta la maturità di quella nuova immagine devozionale, forma pietatis che irrompe in rapporto emotivo con l’osservatore (pietà> è un atteggiamento reciproco, e il taglio a mezzo busto che caratterizza questo tipo di opere già da solo invita a un rapporto intimo, colloquiale; muove i sentimenti, genera empatia), che prese a delinearsi in Occidente a partire dal tredicesimo secolo (Erwin Panofsky, probabilmente credendola opera più antica, ne identificava il typus nel Cristo morto con la Vergine dolente del Museo Horne di Firenze) per giungere a compimento nel secondo Quattrocento. Inizialmente, una specie di travaso genetico tra i tipi dell’historia (la descrizione obiettiva dell’evento) e dell’imago ieratica di tradizione bizantina, una ibrida historia statica ovvero una resa movimentata dell’imago atemporale; nei suoi esiti maturi, che in Giovanni Bellini trovano espressioni di questa altezza, una forma pietatis del tutto nuova perché umanissima (l’imitatio, che nel Quattrocento riceve una forte spinta soprattutto dalla predicazione osservante, porta per l’appunto il sacro nell’àmbito dell’umano), dove patiens, come già osservava Hans Belting, è sì il Cristo, ma per mimesi lo è egualmente il suo osservatore, così che quel che va in scena, qui, è il dolore reciproco.Dopo il magnifico restauro compiuto da Paola Borghese, Andrea Carini e Sara Scatragli del Laboratorio di restauro del museo, diretto da Mariolina Olivari, la Pietà di Brera fa da perno a una mostra che in poche battute (ventisei opere in tutto) si appunta anzitutto sugli anni giovanili del Bellini, quelli in cui ebbe come maestri non solo il padre Iacopo e Antonio Vivarini (in mostra una tavola dipinta su due registi, dove il Cristo in pietà tra la Vergine e Giovanni evangelista, con il san Giovanni che volge la testa verso sinistra, lascia subito intendere un precedente formale della Pietà di Brera), ma anche i toscani presenti a Venezia e a Padova (come lo Squarcione e il Pizzolo), e lo stesso Mantegna (l’esposizione ne propone il Cristo in pietà tra la Madonna e san Giovanni, che costituiva la cimasa del polittico di San Luca), che gli consentirono di superare i preziosismi tardobizantini che a Venezia non erano per niente tramontati. Come già osservava il Pignatti, in questa straordinaria tavola Bellini si serve ancora «della linguistica “padovana” nel dettaglio minuzioso delle luci, sfilate una a una in oro buono con capelli sottili, lungo la capigliatura di Giovanni o la corona di spine del Redentore: ma insieme campisce con autorità i rossi, turchini e verdi scuri delle vesti, quasi a riequilibrare con un “largo” plasticamente cromatico i precedenti grafismi. L’intonazione di stile che ne promana è quella di una sottile e sensibile personalità figurativa, in cui il sentimento più profondo e delicato emerge con la franca e solenne chiarezza di una serenità umanisticamente rattenuta, di fronte al dolore e alla irreparabilità del fato». Basta un raffronto con il Cristo in pietà tra due angeli (1464 circa) dalle Gallerie dell’Accademia e con la Pietà proveniente dall’Accademia Carrara di Bergamo (1460-1465) per percepire il distacco, a partire dal centro gravitazionale che è l’algida figura del Cristo, che Bellini matura in quest’opera dalla tradizione pittorica lagunare, avviandosi a essere, come scriverà Dürer a Willibald Pirckheimer nel 1506, «l’unico pittore di genio a Venezia»; che non fosse un’iperbole basterebbero a dimostrarlo prove come la Pietà dal Museo Civico di Rimini (1470 circa), quella dai Musei Vaticani (1471-1483) e il Cristo crocifisso tra la Vergine e Giovanni evangelista (1465 circa) del Louvre.Una mostra, questa curata da Sandrina Bandera, Matteo Ceriana, Keith Christiansen, Emanuela Daffra, Andrea De Marchi e Mariolina Olivari (catalogo Skira), che se in parte ripropone opere del Bellini e accostamenti con altri artisti già viste due anni fa all’esposizione allestita presso il Museo Poldi Pezzoli sotto il titolo “Giovanni Bellini. Dall’icona alla storia” (come questa, anche quella mostra prendeva occasione dal restauro dell’Imago Pietatis belliniana conservata nella casa museo milanese), si pone però in intelligente continuità con quel primo appuntamento, quasi un dialogo a distanza, e l’esito è che i due eventi si arricchiscono a vicenda. Ne è un esempio l’immagine su cui la mostra braidense si chiude, la Madonna con il Bambino in trono delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, convocata dai curatori come suggestiva sintesi di tue tematiche tanto care al Bellini, quella della Madonna con il Bambino e quella, appunto, della Pietà: la posa di quel Bambino col braccino abbandonato crea infatti un cortocircuito emozionale con l’iconografia del “compianto”; ma un confronto “a memoria” con la tavola di Lazzaro Bastiani di analogo impianto compositivo esposta due anni fa al Poldi Pezzoli fa toccare con mano la struggente novità del Bellini rispetto a quel dipinto che lo precede appena di un decennio: c’è, qui, ed entra nella storia l’espressione di una umana partecipazione che è come il nuovo strumento percettivo del sacro.
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