sabato 29 ottobre 2011
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Ogni giorno della sua infanzia, il piccolo John l’ha vissuto temendo che sarebbe stato l’ultimo. Saliva sul bus pregando di non saltare in aria, camminava per strada immaginando di essere colpito da un cecchino. Mentre suo padre pianificava l’ennesimo attentato, lui passava le serate a disegnare elicotteri, bombe, sangue e viscere umane. John è figlio di Tommy Lyttle, leader del gruppo paramilitare lealista Uda, ed è nato e cresciuto negli anni più duri del conflitto anglo-irlandese come Fiona Bunting, che aveva solo sette anni quando vide i suoi genitori massacrati da un commando protestante nella loro abitazione di Belfast. Billy invece non aveva ancora compiuto tredici anni quando assistette a un attentato nel suo quartiere e decise di abbracciare la lotta armata, seguendo le orme di suo padre. John, Fiona e Billy fanno parte di quelle generazioni diventate adulte nel corso dei cosiddetti Troubles in Irlanda del Nord, i cui familiari erano membri di gruppi paramilitari, attivisti e leader politici che hanno vissuto quegli anni in prima linea. Nel gigantesco processo di catarsi collettiva innescato dalla firma dell’Accordo di pace del 1998 non era stata ancora ascoltata la voce di chi, da bambino, è stato spettatore spesso inconsapevole di una guerra combattuta dai suoi genitori. Ci ha pensato il sociologo di Belfast Bill Rolston a scrivere questo capitolo rimasto finora ignoto su quegli anni tragici: il suo nuovo libro Children of the Revolution (pubblicato da Guildhall Press) contiene una ventina di interviste che raccontano retroscena drammatici ma lanciano anche un messaggio di speranza per il futuro. «Queste persone – spiega – non sono vittime passive del conflitto, ma sopravvissuti che sono stati capaci di costruirsi una vita dopo un’infanzia drammatica». Oggi le loro parole trasudano rabbia e vergogna per le gesta dei loro genitori, ma anche orgoglio e amore per scelte estreme dettate da circostanze eccezionali.

Rolston, come hanno fatto queste persone a elaborare i traumi del conflitto?«Alcuni l’hanno fatto condividendo in modo incondizionato le idee politiche e le azioni dei loro familiari, altri ancora respingendoli completamente. Nella maggior parte dei casi la reazione più comune è stata una certa ambivalenza. Molti hanno condiviso le opinioni politiche dei genitori ma al tempo stesso hanno sofferto, a livello personale, per le loro scelte. Alcuni, tra quelli che ho intervistato, raccontano di non essere rimasti traumatizzati all’epoca, e che essendo bambini non si rendevano conto quanto le cose fossero anormali, perché non avevano mai conosciuto una realtà migliore. Se le persone, e quindi anche i bambini, possono sentirsi parte di una causa, di una lotta, di una forma di resistenza, talvolta possono rimanere meno traumatizzati di quanto ci si può immaginare, almeno mentre quei fatti accadono».

Una volta cresciuti, quei bambini hanno cambiato il loro atteggiamento nei confronti dei loro genitori coinvolti nel conflitto?«Sì. Adesso si rendono conto di quanto sia stata terribile la loro vita passata e sono sbalorditi di essere riusciti a sopravvivere. Questa stessa consapevolezza è in sé traumatizzante. L’ambivalenza di cui parlavo è invece una conseguenza della loro crescita, della vita successiva. Per esempio, quelli che sono diventati a loro volta genitori adesso sostengono che non potrebbero mai immaginarsi di abbandonare i loro figli per una causa politica, sebbene tuttora alcuni di loro uniscano a questa considerazione un rispetto di fondo per i genitori e per le loro scelte politiche».Ha trovato differenze significative tra le vittime repubblicane e quelle lealiste?«Onestamente, e forse sorprendentemente, no. Da tutte le interviste emerge che gli ex combattenti avevano una forte legittimazione all’interno della loro comunità e della loro famiglia, da una parte come dall’altra».<+nero>In che modo il conflitto continua a condizionare ancora oggi le vite di queste persone?<+tondo>«Per alcuni gli effetti sono ormai minimi, sono venuti a patto con il passato e si sono costruiti una vita normale. Altri - e sono quelli che hanno seguito i loro genitori nel medesimo impegno politico - portano invece con sé quell’eredità ogni giorno. Altri ancora, vivono sempre nell’ombra di un genitore famoso, sono sempre i figli o le figlie di, e combattono ogni giorno per capire chi sono».

In che modo ritiene che la generazione nata dopo il 1998 possa essere differente da quelle che sono vissute prima di quella data?«Insegno a giovani studenti universitari e so che per alcuni di loro il conflitto è un fatto lontano come le guerre napoleoniche. Spesso gli ex membri di gruppi paramilitari hanno difficoltà ad accettarlo. Ma è paradossale, perché se stai combattendo per costruire una società normale per i tuoi figli e i tuoi nipoti, forse il fatto che oggi siano ragazzi come tutti gli altri e non siano ossessionati dal conflitto è già di per sé un successo».

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