mercoledì 20 settembre 2017
All’Eliseo di Roma il regista rilegge “Finale di partita” del celebre drammaturgo con la compassione scaturita dalla disperata infelicità dei personaggi
Baracco, pietas per Beckett
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«Se qualcuno vuole farsi venire il mal di testa con i significati reconditi, faccia pure. E si prepari un’aspirina ». Così tagliò corto Samuel Beckett introducendo Finale di partita, uno dei suoi più luminosi capolavori sull’assurdità e impossibilità dell’essere. Ma nonostante il monito svariate, bislacche o intriganti sono state le interpretazioni ed elucubrazioni su questo paradigmatico atto unico. Iniziò nel 1958, a un anno dalla prima assoluta al Royal Court Theatre di Londra, Theodor Adorno che, nel suo celebre saggio Tentativo di capire “Finale di partita”, si ostinò, nonostante la secca ed esplicita smentita dell’autore stesso, a decifrare il nome di uno dei personaggi, “Hamm”, che secondo il filosofo derivava da un “Hamlet” dimezzato e per questo ridotto a un pezzo di carne sulla sedia a rotelle. Le stesse dettagliate e asciutte didascalie scenografiche del testo sono state oggetto di suggestive visioni: c’è chi ha visto delle cavità oculari nelle due finestrelle in alto a destra e sinistra e pertanto l’intera stanza in cui si consumano le sterili e vacue azioni sceniche come l’interno di un cranio. Altri invece hanno paragonato la scena a una grande arca all’indomani di un nuovo diluvio. E a questo punto chi ci può impedire, a parte Beckett, di vedere nella macchia di sangue al centro dell’ampio fazzoletto spiegato sul volto di Hamm i contorni di un pianeta mortalmente ferito?

Fortunatamente la visione al Teatro Tor Bella Monaca di Roma della prova generale dello spettacolo, già pronto e collaudato per il debutto di martedì prossimo al Teatro Eliseo della capitale, ci dispensa dall’assunzione dell’acido acetilsalicilico perché qui la regia impeccabile di Andrea Baracco e le magistrali interpretazioni dell’inossidabile coppia Mauri-Sturno rendono tutto chiaro, lineare e inequivocabile e proiettano lo spettatore in una dimensione persino emozionale e non prettamente cerebrale senza nulla togliere al raffinatissimo e finissimo ordito verbale e concettuale genialmente costruito dal drammaturgo irlandese. «Artefice di gabbie costrittive», così il regista civitavecchiese, giovane ma ormai esperto frequentatore di classici, definisce Beckett. E non si sbaglia. La meticolosa precisione lessicale, la dialettica col suo impianto matematico e quasi asfittico sembrano lascia- re scarsa possibilità di intervento o di invenzione registica.

La trama d’altra parte non concede voli pindarici: Hamm, un anziano signore cieco condannato sul suo trono a rotelle, è legato a filo doppio in un rapporto malato a Clov, suo servitore afflitto da una patologia speculare a quella del suo padrone, ovvero è incapace di sedersi. Trascinano la loro esistenza in un ambiente anonimo, grigio, vuoto come le loro improduttive vite. Nulla di fecondo e significativo giunge dall’esterno mentre all’interno i due protagonisti vivono conflittualità tanto ostili quanto assurde e statiche così come i loro discorsi e movimenti che sono circolari, ripetitivi, ossessivi, specchio di una paralisi interiore. Clov, in questa ultima fase di una partita a scacchi di cui si sta tristemente cercando di rinviare l’inevitabile fine (e questa è l’unica interpretazione che ha il sigillo dell’autore), vorrebbe lasciare il suo dispotico padrone, ma naturalmente per lo scrittore di Aspettando Godot è un’opzione impraticabile. Altre presenze paralitiche sono i vecchissimi genitori di Hamm, Nagg e Nell, privi di gambe e incastrati in due bidoni della spazzatura che Baracco trasforma in gabbie con rete metallica da pollaio. Sia questa costrizione e amputazione fisica che i lacerti di blasfema o arida comunicazione fra padre, madre e il figlio Hamm decretano l’annichilimento di ogni sentimento familiare. Ad esempio la morte della madre Nell suscita nel figlio un’indifferenza assoluta.

In questa prigione di nonsenso beckettiano il regista Baracco si trova perfettamente a suo agio, lavora di rigore e sottrazione, presenta una scenografia-bunker con pareti imponenti color muffa e si concede flebili sottofondi musicali minimalisti che dilatano la serpeggiante angoscia esistenziale. In apparenza sembra non inventarsi nulla, in realtà dimostra quanto il teatro dell’assurdo dello scrittore britannico gli sia entrato nel sangue gettando una luce sulle profonde oscurità dell’opera e regalandoci una chiave di lettura lontana da cervellotiche, stravaganti, simboliche esegesi e sintetizzabile in una parola: pietas. Una compassione che scaturisce dalla disperata infelicità tragica e grottesca dei personaggi vissuti con lampante coerenza da Elisa Di Eusanio e Mauro Mandolini, rispettivamente Nell e Nagg, e soprattutto da Glauco Mauri e Roberto Sturno nei panni dei due protagonisti, impareggiabili nel conferire umanità e naturalezza all’assurdità e forse unici nel panorama teatrale italiano, grazie al loro storico sodalizio artistico, a potersi giocare senza crampi interpretativi questo finale di partita.

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