martedì 14 maggio 2013
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Simone Weil al posto di Beatrice. Succede anche questo nella rivisitazione della Commedia dantesca che Giorgio Pressburger ha portato a termine dopo un decennio di lavoro ambizioso e caparbio. «Ho subito capito che questo sarebbe stato il mio ultimo libro», ammette lo scrittore, approdato diciannovenne in Italia dall’Ungheria nel 1956, all’indomani della fallita insurrezione anti-sovietica. Dopo l’«infernale» Nel regno oscuro, pubblicato da Bompiani nel 2008, il progetto giunge a compimento presso lo stesso editore con il corposo Storia umana e inumana (pagine 478, euro 19; in libreria da domani, sarà presentato al Salone del Libro di Torino sabato 18 maggio alle ore18, presso il Caffè Letterario), nel quale confluiscono le rimanenti due sezioni: Nella regione profonda, che rimanda al Purgatorio, e Nei boschi felici, personalissima interpretazione della condizione paradisiaca. «Ma già l’Inferno del Regno oscuro – osserva l’autore – si discostava molto dalla visione tradizionale. In quella prima parte del viaggio, infatti, non incontravo i peccatori, ma le vittime di cui è disseminato il Novecento».Misurarsi con Dante è un’impresa ambiziosa: come è nata l’idea?«Dal desiderio di scrivere un grande libro dopo il quale, lo ripeto, avrei potuto non scrivere più. L’intuizione era quella di prendere le mosse da un classico, nello stesso modo in cui James Joyce con Ulisse aveva realizzato un capolavoro che, nello stesso tempo, è e non è una versione moderna dell’Odissea. Ho scelto Dante per la sua universalità e complessità, ma mi sono reso presto conto che i miei modelli tendevano a sovrapporsi».In che senso?«Oltre a Dante c’è Virgilio, e oltre a Joyce c’è Goethe, dal quale sono tratte alcune delle citazioni decisive».Lo stile, in effetti, è sorprendente: frammenti, dialoghi teatrali, una prosa che si confonde con la poesia...«È una parola scritta per essere detta. In questo è stata molto utile la mia esperienza di regista e autore teatrale. Ho lavorato molto su una sorta di versificazione interna al periodo, ottenuta introducendo spazi bianchi tra alcune parole. Una procedura per la quale mi sono rifatto a uno scrittore le cui convinzioni trovo invece detestabili: Louis-Ferdinand Céline».Come si è regolato, invece, nella scelta delle guide ultraterrene?«Nel regno oscuro era dominato dalla presenza di Sigmund Freud. Per motivi facilmente comprensibili: la scoperta dell’inconscio, l’attraversamento della zona d’ombra che ciascuno di noi porta dentro di sé. Insomma, Freud è stato il mio Virgilio. Anche per il corrispettivo di Beatrice non ho avuto esitazioni. Simone Weil è una figura femminile straordinaria, relativamente ancora poco conosciuta, almeno in Italia. Dal suo pensiero passa la via che porta il Novecento fuori da se stesso, salvandolo dagli orrori del cosiddetto “secolo breve”».Per il Paradiso, però, ha voluto un’altra guida.«Forse perché per me il Paradiso è il luogo in cui realtà diverse convivono senza più differenze. Quando mi sono imbarcato in questa specie di riscrittura della Commedia, mi sono posto l’obiettivo di escludere la componente teologica, che in Dante svolge invece un ruolo decisivo. Nonostante tutto, la teologia continua ad affiorare: già san Tommaso d’Aquino, infatti, rifletteva sulla coincidentia oppositorum di cui Nei boschi felici vuole essere una rappresentazione. Ma non si tratta di una forzatura intellettuale. A praticare veramente la convivenza sono anzitutto le persone semplici. Per questo ho voluto che fosse mio padre a guidarmi in Paradiso».Nel libro le vicende di famiglia occupano molto spazio...«Perché hanno una dimensione universale, che è propria di ogni famiglia e, in modo specifico, della mia. Il protagonista della narrativa tra fine Ottocento e primo Novecento è il piccolo borghese mitteleuropeo, solitamente ebreo: il personaggio al quale Joyce, nell’Ulisse, darà il nome di Leopold Bloom. E se perfino Joyce, irlandese e cattolico, ha sentito il bisogno di confrontarsi con qualcuno di così simile a mio padre, perché non avrei dovuto farlo io? L’ebraismo, in fondo, rappresenta la paternità dell’Occidente».Nel suo libro la Shoah è molto presente, eppure non costituisce l’unico orizzonte del racconto.«Diffido della retorica con cui, negli ultimi tempi, si parla dello sterminio degli ebrei. Non vorrei che fosse una maniera per neutralizzare quella tragedia. Come il premio Nobel Imre Kertész, sono persuaso che la Shoah faccia parte della Storia, ma non la esaurisca».Non teme che l’Europa di oggi possa essere di nuovo tentata dal totalitarismo?«Sono un pessimista, ma so bene che, alla prova dei fatti, noi pessimisti siamo i più ottimisti di tutti. In Europa serpeggia la paura, specie sul fronte economico, ma ho l’impressione che si tratti di un sentimento indotto dall’alto, in modo da favorire determinati comportamenti. Forse è arrivato il momento di riconoscere che questi timori, così diffusi nella società europea, fanno parte di un disegno politico, che va contrastato».Come si può riscrivere la «Commedia» senza credere in Dio?«Nel libro affermo spesso di non avere certezze. Ma proprio perché non ho certezze, non escludo nessuna possibilità. Tanto meno Dio, che è la possibilità di tutte le possibilità».
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