martedì 28 luglio 2015
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Chissà se oggi, reduce da un altro magnifico album intitolato No pier pressure, l’ennesimo bel disco della sua rinnovata carriera solista, Brian Wilson ha dimenticato i Beatles. Sì, i Beatles, i fondatori della musica moderna che nel giugno del 1967 mettevano il punto esclamativo su suoni, temi e colori di un’epoca pubblicando Sgt. Pepper’s lonely hearts club band proprio mentre Wilson e i suoi Beach Boys, lato americano della medesima costruzione di un nuovo pop, stavano scrivendo Smile.Che avrebbe dovuto essere anch’esso sintesi della stessa epoca: e invece arrivò in ritardo, venendo così non tanto anticipato, quanto distrutto dai Fab Four. Un Lp chiamato Smiley smile uscì a novembre di quello stesso 1967, ma subito apparve chiaro che i Beach Boys, con Brian che dava fuori da matto per lo smacco, non sarebbero più stati degni avversari dei Beatles; anche perché quel disco che non si chiamava più Smile (Smile sarebbe uscito nel 2011…) non era certo all’altezza del capolavoro da cui veniva la band, Pet sounds. Chissà se Brian Wilson li ha dimenticati, i suoi rivali Beatles, oggi che i Beach Boys sono stati giustamente rivalutati. Come innovativi, rivoluzionari, anch’essi inimitabili protagonisti della storia della musica cosiddetta leggera: da Good vibrations, che poco dopo Pet sounds e poco prima dell’abortito Smile aveva venduto un milione di copie rivoluzionando le abitudini su quanto si potesse fare in sala d’incisione per arricchire uno spartito, sino a un Lp che si intitola Little Deuce Coupe e pochi conoscono. Anzi, neppure i  Beach Boys ci avevano contato granché. Però aveva aperto, senza saperlo, l’era dei “concept album” su temi sociali moderni: essendo incentrato sulla società dell’automobile.  Brian Wilson, classe 1942, aveva cominciato a far musica diciottenne col fratello Carl. Poco dopo arrivò l’altro fratello minore Dennis e, col cugino Mike Love e l’amico Al Jardine, nacquero i Beach Boys. Il primo singolo del gruppo fu del 1961, ma sino all’album del 1964 All summer long i Beach Boys, pur con le loro straordinarie armonie polifoniche e la genialità di scrittura di Brian, erano considerati solo artisti da 45 giri. Eppure è proprio in questo periodo che vede la luce, nell’ottobre del 1963, Little Deuce Coupe: con cui, recitavano le note di copertina, «i Beach Boys passano dall’essere il  più popolare gruppo che parla del surf [tema dei loro solari e modaioli album d’esordio, ndr] a divenire anche i più popolari sul tema dei motori». La frase pare banalizzante, ma il disco banale non era: trattasi infatti di un’infilata di dodici brani che parlano di macchine e finisce, in parte involontariamente ma oggi con grande rilievo di testimonianza, col fotografare un’epoca che cambiava in toto, dal mezzo di trasporto principe in poi. Giacché l’industria dell’automobile modificò la vita economica dell’America, e l’automobile evoluta degli anni Sessanta avrebbe rappresentato dovunque, in sé, il primo vagito di una supposta “modernità” destinata però ad alienare gli individui acuendone le diversità sociali e impedendone spesso il dialogo. Alcuni brani del disco, compreso quello del titolo, erano già stati editi come singoli; ma l’idea di un Lp a tema sulla civiltà (o inciviltà) dell’automobile fu di tale presa sui giovani componenti del gruppo che i pezzi vennero ripresi per il nuovo “concept album”, uno dei primi della storia, il primo sui temi della società industriale. Ovviamente alcuni pezzi, dallo stesso Little Deuce Coupe a Cherry, cherry coupe, sono meri inni alla libertà del giovanile correre in automobile; e del resto Brian Wilson, uomo geniale quanto problematico (aveva paura del pubblico, e dopo il fallimento dell’idea di Smile ha lottato con depressione e dipendenze di vario genere), sicuramente non aveva all’epoca coscienza del peso del disco che stava mettendo in piedi. Però il disco arrivò lo stesso: contiene anche l’epica del viaggio come scoperta e maturazione al contempo ( Ballad of ole’ Betsy), ironia per taluni eccessi dell’automobile- mania ( Our Car Club),piccoli spunti di satira e riflessione. Come il canto per cui «Ogni cosa è cromata, anche il cric, bello mio» di Custom machine, e soprattutto A young man is gone: drammaticamente profetica sull’inutile morire giovani in macchina, divenendo forse “eroi” per qualcuno ma comunque vittime di un eroismo tragico quanto inutile. C’è poi, in Little Deuce Coupe, anche l’esaltazione del record di velocità con macchina a propulsione jet del veicolo Spirit of America, omonimo della canzone: e ciò dimostra che stiamo parlando di un “concept album” a tratti senza coscienza e a volte pure contraddittorio (come la vicenda umana di Wilson). Album che però regala comunque la precisa istantanea di un cambiamento epocale. Chissà se oggi, superati i tragici decessi dei fratelli e i propri problemi, nonché tornato a far grande musica, Brian Wilson pensa mai a certe idee uniche che ha avuto. Chissà, forse gli avrebbero fatto dimenticare prima i Beatles, magari gli avrebbero proprio fatto evitare di mettersi in competizione con loro. Persino quel misconosciuto “concept album” del 1963 sulla civiltà delle macchine, per quanto giovanile, ondivago e in parte non voluto, gli aveva in fondo già assicurato un signor posto, nella storia della musica “leggera” mondiale. 
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