martedì 6 maggio 2014
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È concepibile un mondo diversamente gestito e organizzato rispetto a quello in cui viviamo – un mondo di crescita ostinata dell’individualismo, del consumismo, dello spreco e della diseguaglianza sociale? Questo è il problema, che Jeremy Rifkin affronta senza mezzi termini nella sua opera più recente, dal provocatorio titolo The Zero Marginal Cost Society, con sottotitolo The Internet of Things, The Collaborative Commons, and the Eclipse of Capitalism (“La società con costo marginale zero: i beni comuni collaborativi, l’Internet delle cose e l’eclisse del capitalismo”, ndr). Rifkin sostiene che un’alternativa ai modelli capitalistici di mercato, largamente considerati una delle sempiterne caratteristiche della natura umana, non solo è concepibile, ma è già nata e sta guadagnando terreno, avviandosi verosimilmente a diventare dominante non nel giro di qualche secolo, ma di pochi decenni.
I "beni comuni collaborativi", insiste Rifkin, non sono un’utopia, ma una realtà dietro l’angolo; una realtà che dista dall’attuale non lo spazio di una rivoluzione, una guerra mondiale o un’altra catastrofe, ma solo il lasso di tempo, che si sta riducendo a vista d’occhio, necessario perché maturino forme di condivisione e modi di comunicazione che sono già impiantati, germogliano e fioriscono, procurano energia e risolvono problemi logistici. Una volta giunti a piena maturità, i "beni comuni collaborativi" «romperanno il monopolio delle gigantesche imprese a integrazione verticale operanti nei mercati capitalistici, rendendo possibile la produzione paritaria in reti continentali e globali a espansione orizzontale a costo marginale prossimo allo zero». La vicenda storica di tale economia sta arrivando al capolinea. Sta per iniziare l’era della cooperazione e della condivisione.
Rifkin ha ragione quando ci sollecita a strappare il velo tessuto dalla società consumistica mercantile scoprendo le reali alternative, sempre più tangibili: la possibilità di una società basata sulla collaborazione anziché sulla competizione.Tuttavia, un conto è il richiamo – giusto resistere alla tentazione di trascurare o respingere i segni promettenti, che comunque si affacciano, di scenari sociali (ogni maggioranza non può che iniziare da un’esile minoranza, e anche la quercia più fronduta ha origine da una ghianda), un altro conto è l’improbabile suggerimento che la questione sia ormai risolta e che l’esito della trasformazione in corso sia prestabilito… Tutto ciò suona come una nuova versione di “determinismo tecnologico”. Un’ascia si può usare con pari facilità per tagliare il legno o la testa di qualcuno: e mentre la tecnologia determina la serie di opzioni aperte agli esseri umani, non determina quale di queste opzioni alla fine sarà scelta e quale scartata. Quella dello sviluppo tecnologico non è una strada a senso unico. (...)
Ugualmente discutibile è la decisione di attribuire alla tecnologia informatica lo status di «infrastruttura» in grado di determinare il carattere di «bene comune collaborativo» della società futura. L’accesso universale, facile e comodo agli eventi di tutto il mondo in tempo reale, abbinato alla possibilità ugualmente aperta, facile e indisturbata di esporsi a un pubblico universale è stata già salutata da numerosi osservatori come un autentico punto di svolta nella breve quanto densa e tempestosa storia della moderna democrazia. Contrariamente alle aspettative, praticamente diffuse a livello mondiale, che Internet possa rappresentare un grande passo avanti nella storia della democrazia, coinvolgendo ciascuno di noi nella costruzione del mondo che condividiamo e sostituendo l’ereditaria “piramide del potere” con una politica “laterale”, si accumulano prove che Internet possa anche servire a perpetuare e rafforzare conflitti e antagonismi, impedendo di fatto che un efficace negoziato a più voci conduca a un possibile armistizio e accordo, con integrazione e collaborazione a reciproco vantaggio. Paradossalmente, il pericolo scaturisce dall’inclinazione di numerosi internauti a fare del mondo virtuale una zona esente da conflitto, non però negoziando le questioni conflittuali e risolvendole con reciproca soddisfazione, ma rimuovendo dalla propria sfera visiva e mentale i conflitti che attanagliano il mondo non virtuale…
Numerose ricerche hanno dimostrato che gli utenti assidui di Internet possono trascorrere e di fatto trascorrono gran parte (forse la maggior parte) del proprio tempo, o addirittura l’intera vita in rete, incontrandosi esclusivamente con persone che la pensano come loro. La rete crea una versione raffinata di “zona ad accesso limitato”: a differenza del suo equivalente nel mondo non virtuale, qui non viene addebitato agli occupanti un affitto esorbitante e non servono guardie armate né sofisticati sistemi di controllo a circuito chiuso; basta un semplice tasto Canc. [...] L’inconveniente è che in un tale ambiente virtuale, artificialmente quanto abilmente disinfettato, difficilmente si potrà sviluppare un sistema immunitario contro le tossine delle controversie endemiche all’universo non virtuale.
(Traduzione di Isabella Farinelli)
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