martedì 5 settembre 2017
Nella società occidentale che nega il Dio onnisciente e onnipotente si dissolve anche la figura paterna. E purtroppo i surrogati li offre il mercato
Bauman, questi padri "evaporati"
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Si intitola Elogio della letteratura il volume che raccoglie i colloqui tra Riccardo Mazzeo e Zygmunt Bauman (Einaudi, pagine 156, euro 16,00), nelle librerie da oggi, e di cui pubblichiamo in questa pagina un estratto. Nel volume Mazzeo, che presenterà il libro in anteprima a Pordenonelegge 2017 sabato 16 settembre (ore 17, sala convegni della Camera di Commercio di Pordenone), e Bauman esaminano la controversa questione della relazione tra la letteratura (e le arti in generale) e la sociologia (o quel ramo delle scienze umane che pretendono di avere uno status scientifico). Mentre molti vedono letteratura e sociologia come vocazioni radicalmente differenti, Bauman e Mazzeo sostengono che siano connesse da un obiettivo comune e condividano lo stesso ambito d’indagine.

Dio, Padre, Patria: nomi diversi per una totalità che supera la somma delle sue (singole!) parti: il Leviatano di Hobbes, la società di Durkheim, il Sovrano di Schmitt. Quest’ultimo si rivelò il più lucido e perspicace quando decise di intitolare Teologia politica la sua opera magna e di definire la figura del "Sovrano" non tanto in virtù della sua specifica capacita di legiferare, quanto per il suo essere al di sopra delle leggi, un’assenza di responsabilità che fa dipendere entrambi gli atti (il crearle e l’infrangerle) esclusivamente dalla sua decisione; in ultima istanza, il sovrano è colui che non è tenuto a fornire alcuna spiegazione o giustificazione a chi è soggetto al suo legiferare. E' questa libertà decisionale assoluta, senza limiti e indiscutibile, a rendere tutti noi, che siamo soggetti al suo volere, dipendenti da scelte esclusivamente sue, scelte che per definizione sono imprevedibili e assolutamente fuori dal nostro controllo.

Come Giobbe ebbe modo di provare sulla propria pelle: «In verità io so che e così: e come può un uomo avere ragione innanzi a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su mille». Paradossalmente, però, il “timore e tremore”, come direbbe Kierkegaard, generato dal confronto con un Assoluto così prepotente e invincibile, così insondabile e inconcepibile, potrebbe anche rivelarsi uno scaltro stratagemma culturale, in grado di rendere sopportabile o perfino vivibile l’esistenza, a dispetto di un destino caparbiamente impenetrabile. Invece di esacerbare, può mitigare l’altrimenti incurabile terrore dell’ignoto. Dio, il Padre, il Re riesce a vedere e a sentire da più lontano rispetto a me; non solo sa ciò che il futuro ha in serbo, ma questo futuro è creta nelle sue mani, lo può plasmare a piacimento. Lui è onnisciente e onnipotente e se si astiene dal fare quello che vorrei così tanto vedersi avverare di certo è perché sa qualcosa che io, con i miei sensi limitati e il mio limitato intelletto, non posso sapere e neppure saprei comprendere se ne fossi a conoscenza.

Tendo a vedere nel 1755 l’anno in cui si è iniziato a redigere la notifica di sfratto di Dio dal centro dell’universo. Nel 1755 Lisbona fu colpita da un triplice disastro: in rapida successione si verificarono un terremoto, una serie di incendi e uno tsunami. I colpi le si abbatterono addosso a caso: come Voltaire ebbe la prontezza di osservare, "l’innocent, ainsi que le coupable, / subit également ce mal inévitable”. Il verdetto di Voltaire era di una chiarezza cristallina: la permanenza di Dio al centro dell’universo non aveva passato la prova d’esame fissata dagli uomini in materia di ragione e di morale. Sottesa a quel verdetto c’era la conclusione che l’universo avrebbe avuto molte più possibilità di conquistare un ordine più “civilizzato” e una giustizia più giusta se fosse passato a una nuova gestione, che andava affidata agli esseri umani.

Nei due secoli successivi ci siamo resi conto, e in modo piuttosto brutale, che i manager umani non hanno ottenuto risultati molto diversi rispetto a quelli di Dio quando si è trattato di gestire in modo disastroso sia la ragione sia il senso morale, e abbiamo scoperto non solo che il Grande Ignoto non è così pronto a farsi da parte, ma anche quanto siano tenaci i vincoli che impediscono agli esseri umani di avvicinarsi all’onniscienza, figuriamoci poi all’onnipotenza. Lo Stato e il Mercato, le due agenzie sulle quali la ragione e la morale (dopo essersi consultate a vicenda ma senza giungere a un pieno accordo) avevano puntato per gestire in modo efficace la parte dell’universo popolata dagli uomini, o almeno a metterla nelle condizioni di autogestirsi come si deve, hanno fallito e falliscono ogni giorno di più tutta una serie di prove pratiche, deludendo le aspettative che vi erano state riposte. E al momento non vediamo candidati papabili a subentrare al loro ruolo, per quanto meticolose e disperate siano le ricerche e per quanto possano sembrare creativi e promettenti i bozzetti sulla lavagna.

Nella nostra realtà frattale si ripropone, seppure su scala diversa, un dilemma dello stesso tipo. La crisi di un’autorità improntata all’immagine del Dio Padre onnisciente e onnipotente viene avvertita con forza dalla base fino alla cima, sebbene ciascun livello abbia i propri motivi per viverla così, e nonostante i fattori scatenanti di questo senso di crisi siano diversi. Il padre in carne e ossa, non quello metaforico, appartiene al frattale più piccolo nella successione/gerarchia di frattali. Quel padre fatto di carne funge più che altro da anello di congiunzione – o, più correttamente, da interfaccia di trasferimento/ scambio – tra quelle due modalità di aggregazione umana coesistenti, intrecciate e interagenti, che Victor Turner distingueva in societas e communitas. Le prove e le tribolazioni che affliggono oggi quella particolare “figura paterna” riflettono in forma condensata i fenomeni che colpiscono ognuna delle sue estensioni e idealizzazioni, a prescindere dal gradino occupato nella struttura frattale.

Indipendentemente dal fatto che entrambi i genitori vivano o no sotto lo stesso tetto, i legami tra genitori e figli si stanno facendo sempre più laschi e al contempo viene strappata loro di mano l’identificazione pressoché totale con la struttura dell’autorità. Credo che l’“evaporazione del padre” dalla vita familiare di cui parlano Lacan e Recalcati o, almeno, da quel “centro intorno al quale gravita la vita familiare”, sia in larga misura, sebbene certo non esclusivamente, una situazione autoinflitta, una fossa in cui ci si e scavati da soli.

È indubbio che la volatilità del mercato del lavoro e l’intrinseca fragilità, friabilità e nonfinalità pressoché cronica delle posizioni sociali rivelino quotidianamente la spettacolare scomparsa dell’onniscienza, e a maggior ragione dell’onnipotenza, dall’elenco delle qualità del Padre: queste nuove realtà di vita indeboliscono quelle condizioni, create e preservate sul piano sociale, su cui un tempo tendeva a fondarsi la possibilità di ricorrere al Capofamiglia come il prototipo per qualunque futuro garante dell’ordine e della giustizia del mondo. Eppure, l’“evaporazione” del Padre, e così le sue conseguenze più decisive in termini di Weltanschauung, come lo svuotamento improvviso del “centro gravitazionale”, sono state favorite e promosse dalla rinuncia a una notevole fetta di responsabilità genitoriali, un atto di resa che può essere coatto o volontario, rassegnato oppure accolto con entusiasmo. Gli scrupoli morali che potrebbero insorgere in seguito a questa rinuncia tendono a essere affrontati attraverso i servizi a pagamento offerti dai mercati del consumo; e ancora di più attraverso il ricorso ai beni che questi offrono con la funzione di tranquillanti morali. Il che a sua volta spiana ancor più la strada alla commercializzazione degli aspetti più intimi dell’aggregazione e dell’interazione umana.

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