venerdì 16 dicembre 2016
Una mostra rilegge la storia della scuola di Gropius a Weimar Una utopia segnata anche da una antica mitologia
Bauhaus tra modernità ed esoterismo
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Fu vera rivoluzione? La rivoluzione che doveva portare la bellezza democratica nelle case dell’uomo comune? Cominciamo allora dal tema più insolito, insospettato, della filosofia Bauhaus: il suo esoterismo. Ne parla nel catalogo di questa bella mostra in corso a Parigi negli spazi del Museo d’Arti decorative di rue de Rivoli, Jean-Louis Gaillemin. Colpisce, certo, se si pensa a come lo stile Bauhaus venga sempre ricondotto al rigore del bianco e nero. Ma non era così. E per quanto il rigore scientifico entrasse nel pensiero di Walter Gropius, il “cerimoniale” nel suo insieme corrispondeva piuttosto a una visione idealista- antroposofica che aveva le radici nella dialettica irrisolta fra romanticismo e neoclassicismo tedesco. E il contrappasso è da vedersi proprio nel monumento di Gropius ai Caduti di Marzo, inaugurato nel 1922, che celebrava l’uccisione violenta di nove operai a Weimar durante il tentato colpo di Stato di Alfred Kapp nel marzo 1920. Il monumento (in mostra è esposto il modellino) ha l’aspetto di una saetta, un lampo che da terra s’alza imperioso verso il cielo, come il pugno di Prometeo contro gli dèi. Il simbolo riprende sia il mito del fulmine (pensiamo alla conferenza di Warburg sul rituale del serpente, e si capirà quanto tedesco questo simbolo che poi troverà la sua incarnazione nel blitzkrieg) sia la punta segmentata dell’iceberg ghiacciato nel celebre dipinto di Caspar David Friedrich.

Ma Gaillemin è soltanto l’ultimo di una schiera di studiosi che negli ultimi trent’anni hanno fatto risaltare (anche per il clima postmoderno più favorevole) l’elemento esoterico-antroposofico del Bauhaus. Forse sarebbe ora di esaminare più attentamente l’influenza di Rudolf Steiner sulla maturazione intellettuale di Gropius, tanto più che proprio Steiner tenne conferenze sia sull’arte che sull’architettura e l’artigianato propugnando una nuova pedagogia della creatività che ha forti riscontri nella pedagogia del Bauhaus. Già Wolfgang Pehnt aveva notato come i cromosomi di quella scuola d’arte si ritrovassero in una certa mitologia tedesca. Proprio il “cerimoniale sacro” della festa che si tenne il 18 dicembre 1920 per inaugurare la copertura di Casa Sommerfeld a Berlino ci dice quanto “irrazionalismo” si può trovare nell’ispirazione di quella filosofia del-l’arte e del costruire: «Adolf Meyer ideò un vero e proprio cerimoniale, con un fuoco, un coro e un corteo, forse rifacendosi all’antroposofia, cui era personalmente legato – notò Pehnt –. A una sequenza binaria di formule (principio e fine, maschio e femmina, spirito e corpo, movimento e stasi, volume e spazio, pianta e alzato) risponde per tre volte una formula composta da tre termini, in cui ciò che è diviso si riunisce nella comunità: “Anello, circolo, corona”... Poi sei membri del Bauhaus, in costume da carpentieri, alzavano la corona da porre sopra il tetto. Il committente aveva reso loro disponibili, per l’occasione, eleganti completi marrone, con tanto di camicia e cravatta». E si capisce anche perché Tom Wolfe si appellasse a queste immagini folcloriche per versare il suo vetriolo sull’intera architettura moderna.

Pehnt scrisse anche che non bisognava essere troppo critici verso Gropius, il quale subì come molti tedeschi lo “sbandamento” postbellico, e inquadrava quel cedimento all’esoterismo come un tributo pagato a quell’epoca di «crepuscolo dell’umanità ». Percorrendo gli spazi concentrici dell’allestimento al Museo d’Arti decorative, mi vengono alcune domande immediate: mi chiedo, per esempio, se questi “rivoluzionari” avrebbero abitato serenamente quegli spazi che progettavano, oppure c’era in loro anche un sadismo dell’immaginazione che voleva imporre un rigore formale e una dieta estetica al gusto di un’epoca chiusa in un romanticismo in ritardo sul proprio tempo? Nel 1930 Adolf Behne aveva definito appunto il funzionalismo gropiusiano una «dieta abitativa prescritta fin nei minimi particolari», e intendeva mettere in luce il pensiero autoritario «del prendere o lasciare». Gropius, fondando il Bauhaus non aveva dubbi: «Ciò che oggi sembra un lusso, domani sarà la norma». Giulio Carlo Argan che sulla pedagogia del Bauhaus ha costruito la propria idea di Industrial design («a quantità illimitata qualità illimitata») nel 1964 dichiarava la resa di quel progetto moderno e l’impossibilità «di educare o riformare la società attraverso il design». Ma il designer illuminato o visionario è cosa ben diversa dal rivoluzionario che disegnando un oggetto, una casa, una città, riesce a cambiare la storia politica del mondo ridefinendone l’estetica.

Al Bauhaus volevano esprimere un nuovo metodo, ma non combattevano marxianamente il capitale, anzi non c’è dubbio che intendevano collaborare con le industrie e le imprese più avanzate per produrre oggetti e luoghi da abitare per un presunto uomo comune che, in realtà, avrebbe dovuto impegnare il suo salario di un mese per poter acquistare una poltrona Wassily di Marcel Breur (e non parliamo della Barcellona di Mies van der Rohe o altri oggetti d’arredo). Non si deve dimenticare che il primo incarico di Gropius come architetto fu di natura sartoriale per così dire, nel senso che subentrando a Eduard Werner nel progetto per la costruzione delle Officine Fagus, ereditando uno stato dei lavori dove erano già state realizzate le fondamenta e alcune parti strutturali, Gropius si trovò a dover in sostanza cucire un vestito nuovo su uno scheletro esistente (tra l’altro col finanziamento di una corporation americana, la United Shoe Machinery). E quando negli anniVenti fece un viaggio negli Stati Uniti, rimase affascinato dalle architetture industriali dei silos per sementi, definendole i propilei della modernità, ai quali però occorreva, costruendo in Europa, imporre un’idea spirituale (troppo pragmatici, insomma, gli americani, per un figlio dell’idealismo tedesco). Oltre vent’anni fa Alan Colquhoun aveva ben delineato il clima intellettuale tedesco nel quale nacque il Bauhaus, ovvero quello di un conflitto interno alla nazione: « Zivilization significava materialismo aristocratico e superficialità, in contrapposizione alla meno brillante ma più profonda Kultur del Volk». Il Bauhaus doveva essere il modello per il superamento della separazione fra teoria e prassi. E in questo tentativo di sintesi (in senso proprio hegeliano), la mostra in realtà ci mette sotto gli occhi la molteplicità dei risultati estetici prodotti dalla scuola gropiusiana. Si va da soluzioni ancora tradizionali e artigianali, per esempio in certi esempi di materiale ceramico – ma con quel distillato finale di eleganza minima che si può percepire nel corredo da cucina di Theodor Bogler per la casa a Horn –, all’ispirazione giapponese del minimalismo architettonico (a confronto, l’isonometria della casa disegnata da Benita Otte e lo spoglio atelier di László Moholy-Nagy); dal folclore esotico della Poltrona africana di Marcel Breuer, all’ironica riconversione di un armadio in uno stile espressionista di Rudolf Lutz, alla poesia scompositiva dello stesso Breuer per la Poltrona a listelliin legno dipinto.

Un discorso a sé meritano gli oggetti e le stoviglie per la tavola: ancora decò il Samovar di Josef Knau, di raffinata sprezzatura moderna invece la Tazza in vetro da tè con con piatto e cucchiaio, manici in ebano e sostegni in acciaio cromato di Josef Albers. Il genio più raffinato di questa nidiata di designer per la tavola è sicuramente Marianne Brandt, di cui si ammira il senso estetico moderno e classico al tempo stesso, che si dispiega tanto nello studio di un servizio da tè come nell’essenziale e quasi spartano disegno di lampade da soffitto. L’elemento che collabora maggiormente a ravvivare gli ambienti domestici è senza dubbio quello dei tappeti, i cui disegni geometrici riflettono su pareti e pavimenti lo schema con cui viene pensato l’intero spazio architettonico (e persino urbano): un tema forse più suggestivo della stessa pittura murale che segue moduli astratti, cubisti, geometrici scompositivi sul tipo di quelli di Theo van Doesburg. È come se vedessimo la perenne messa in scena di una scenografia teatrale. Ed è certo che questa teatralità celava anche un progetto politico: dare un volto non prosaico alla società democratica. Un sogno, come vediamo oggi, sfumato. Ma anche un esempio da non archiviare.

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