sabato 18 maggio 2013
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​La guerra Nathalie Bauer se l’è trovata in casa. Riordinando gli archivi del nonno, Raymond Bonnefous, si è imbattuta in quaderni, agende, lettere e fotografie risalenti alla Prima guerra mondiale. «Il resto era in perfetto ordine – racconta –, solo questo materiale era gettato lì alla rinfusa. Di quel periodo, del resto, il nonno non parlava. I suoi ricordi riguardavano semmai la Seconda guerra mondiale. Il trauma iniziale era stato troppo forte». Il diario di Raymond è la falsariga sulla quale Nathalie ha costruito Ragazzi di belle speranze, edito da Cavallo di Ferro nella versione di Carlo Mazza Galanti e presentato ieri al Salone del Libro. Un romanzo che in Francia ha ottenuto, fra l’altro, il premio degli Scrittori credenti. «Il tema centrale – sottolinea l’autrice, molto nota anche per le sue numerose traduzioni dall’italiano – è la fratellanza. Un legame più forte della semplice amicizia. Senza quel sentimento, il nonno e i suoi compagni non ce l’avrebbero fatta».Perché?«Perché quella guerra ha distrutto il sistema di valori su cui si reggeva la società del XIX secolo. Si è trattato del primo conflitto condotto con logica industriale. Mio nonno era medico e dai suoi diari emerge con chiarezza lo stupore nel trovarsi a lesioni sempre più terribili, provocate da macchinari progettati per straziare il corpo umano».Una questione di tecnologia, insomma.«Non solo. Nelle guerre precedenti vigeva un’etica rigorosa e condivisa. Non si colpivano i cappellani, non si sparava sui barellieri che recuperavano i feriti, i medici erano ritenuti intoccabili. Regole che non valgono più nelle trincee della Grande Guerra. Da lì in avanti i conflitti si svolgeranno secondo una mentalità esclusivamente economica».I combattenti di allora ne erano consapevoli?«Non fino in fondo. Non appena otteneva una licenza, mio nonno tornava alla vita da civile, forse nell’illusione di negare quel cambiamento. La sua era una generazione straordinariamente colta ed eclettica, amante delle arti come dello sport. Ma proprio a loro è toccato di essere spazzati via dalla guerra».Perciò ha sentito il dovere di ricostruire la vicenda?«Ho la convinzione che non sia solo storia di famiglia. Ormai non ci sono più reduci, noi nipoti siamo gli ultimi ad aver avuto un rapporto diretto con loro e la trasmissione della memoria si sta rivelando impresa difficile. Cui però non possiamo sottrarci».Si è mai chiesta perché suo nonno parlasse così poco di quell’esperienza?«I medici non erano considerati veri soldati. Portavano la pistola, ma non combattevano. Le loro imprese non erano meno pericolose rispetto agli assalti dei fanti, eppure il loro eroismo non era riconosciuto, neppure dai commilitoni. Temo che, anche nel dopoguerra, sia rimasta in lui una forma di vergogna».Qual è stato il destino di quella generazione?«I superstiti hanno portato con sé il valore della fratellanza, alla quale non era estraneo un forte sentimento religioso. Diversa la vicenda delle donne, che proprio a partire da quegli anni hanno visto crescere l’importanza sociale del proprio ruolo. In tanta distruzione, sono state loro a garantire un futuro per l’Europa».
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