venerdì 17 marzo 2017
Nella Germania degli anni Sessanta l'arte di Baselitz resisteva alla supremazia “pop” americana portando il peso del Muro e quello dei crimini di guerra. Al Palazzo delle esposizioni di Roma
Georg Baselitz, “Un nuovo tipo” (1966)

Georg Baselitz, “Un nuovo tipo” (1966)

COMMENTA E CONDIVIDI

Quando i nodi vengono al pettine, la credibilità o meno di chi si professa rivoluzionario dipende quasi soltanto dalla sua capacità di rinunciare ai propri privilegi. Non c’è bisogno di scomodare Cristo per darsi conto di un principio che è logico: se vuoi dire agli altri quale strada seguire, devi averla presa tu per primo e devi dimostrare di essere pronto a portare alle sue conseguenze ultime la tua scelta. Possiamo star certi che nessuno o quasi è all’altezza di questo compito, salvo i santi e gli eroi. La differenza tra un eroe e un santo - prendendo a prestito alcune riflessioni di Tzvetan Todorov -, è che il primo ama la morte, la insegue pronto a sacrificarsi per un ideale, mentre il santo ama la vita, e accetta la morte come testimonianza alla propria fede, ma potendo ne farebbe a meno. Non si sente padrone, insomma, della propria vita e della propria morte. A Roma si è aperta da pochi giorni una mostra di Georg Baselitz. Una mostra piuttosto interessante che espone una scelta di opere dal ciclo degli Eroi e dei Nuovi Tipi che l’artista tedesco, classe 1938, realizzò a metà degli anni Sessanta, vale a dire mezzo secolo fa. Mostra interessante anche se 'inquinata' da una sala imponente di Remix painting del 2007, tele gigantesche che smorzano l’effetto anacronistico delle opere storiche e poco o nulla c’entrano con l’idea portante della mostra, perché sono un mero espediente commerciale (molte sono state esposte anni fa nelle gallerie di Larry Gagosian, mercante d’arte americano tra i più influenti sulla faccia della terra, e anche a Roma). A riprova, il catalogo non comprende queste opere recenti dove attraverso il concetto di Remix, l’artista tedesco dà fondo a un tipico manierismo autoreferenziale, che nulla ha a che vedere col manierismo (poetico e formale) che permea la figurazione di Baselitz nel ciclo degli eroi. In anticipo di due decenni sulle poetiche postmoderne che al manierismo si sono ispirate, nella logica dell’anacronismo e della transavanguardia, Baselitz recupera non tanto lo stile quanto lo spirito della figura d’artista che ha connotato buona parte del XVI secolo. Il manierista è ribelle, si rivolta contro gli schemi consolidati del classico che si volge ormai in classicismo; deforma, frantuma le proporzioni, stira e tende come su un letto di Procuste l’arte e il suo immaginario. Esaspera l’espressione con effetti anche grotteschi, per rivolgere il suo sguardo urticante verso l’esterno, sul mondo, testimoniando così una sofferenza e una inquietudine che è stata messa in relazione al mito di Saturno. Mentre negli anni Sessanta quelle forme sgraziate, «brutte ed espressive», come le ritiene lo stesso Baselitz, avevano una forza provocatoria non indifferente (anche come difesa delle possibilità competitive della pittura in uno scenario sempre più allineato a un astratto-concettualismo sterile), e le prime opere esposte da Baselitz all’inizio degli anni Sessanta suscitarono anche la censura morale e politica; quelle che il pittore realizza nel 2007, invece, hanno un tono narcisista e superficiale che non penetra affatto le angoscie del mondo di oggi (tante, anche se differenti da quelle degli anni Sessanta), anzi riducono la pittura a un fatto estetizzante, alla moda, di ambito sostanzialmente remunerativo.



Peccato. Meglio sarebbe stato contestualizzare quelle opere di mezzo secolo fa con una scelta stringata ma puntuale di dipinti che testimoniassero gli sviluppi pittorici di Baselitz nei decenni successivi. Egli, infatti, è uno dei cavalieri tedeschi dell’apocalisse che nella seconda metà degli anni Sessanta riportarono la pittura in primo piano attribuendole un senso tragico ed eroico al tempo stesso; gli altri sono Karl H. Hödicke e Markus Lüpertz. E attorno a loro comprimari come Koberling, Penck, e poi Anselm Kiefer, che negli anni Ottanta diventerà l’astro sfolgorante dell’arte tedesca. Sono tedeschi che portano nello loro carne profonda, nella psiche, la ferita che Berlino vive come traccia fisica di separazione nel Muro. Nel catalogo Richard Shiff nota che Baselitz è estraneo, fin da ragazzo, a ogni ideologia. E per questo manca di una identità forte, quella che ogni ideologia imprime nella testa di chi la sposa. Egli vive in una condizione «priva di fondamento intellettuale ». Ma è in quel momento, nota Shiff, che viene alla luce la vera identità di Baselitz, uomo «ancorato alla terra», che su di essa poggia i piedi e da essa si erge come un idolo antropomorfo. Come un totem che rimanda al mito arcaico delle foreste (desertificate dalla guerra). È questo l’eroe di Baselitz, un reduce che risorge dal suolo tedesco insanguinato. Reduce di una guerra che lui ha conosciuto da bambino e che ha continuato a lacerare il corpo dei tedeschi per decenni, carnefici puniti dalla storia per il più imperdonabile dei crimini. Che fossero «volenterosi carnefici» o che girassero la faccia da un’altra parte, certe responsabilità si pagano insieme. Gli eroi di Baselitz ricordano un vecchissimo film di Abel Gance, J’accuse, dove i soldati francesi morti nella Grande Guerra si ridestano dalla terra e col loro volto spettrale si recano nei villaggi per vedere se il loro sacrificio è servito a rendere gli uomini più saggi e capaci di convivere senza scannarsi. Constatando che le cose non sono cambiate, se ne ritornano mestamente nelle loro fosse. Ecco, al contrario, gli eroi di Baselitz sono strani energumeni, giovani corpulenti, dal collo grosso e la testa piccola piccola. Sembrano corpi privi di una psiche. Esseri sacrificali. Le mani, le braccia le gambe, il torace hanno una forma massiccia; sono certamente tronchi nati dalla terra, radicati in essa; indossano abiti scarni, laceri, bretelle che reggono calzoni spesso aperti che mostrano gli attributi, come se la loro selvatichezza priva di coscienza li rendesse ignari del pudore. Queste figure umane, potenti e ottuse come giganti ciechi, sono connotate dalla sproporzione evidente fra i loro corpi massicci e le teste troppo piccole. Non microcefali, ma eccentrici al punto di vista; come se la loro figura fosse vista da una profondità della terra che la distanza deforma. Sono anacronistici (per l’epoca) nel linguaggio pittorico, deformati ma espressivi nelle apparenze; sono brutalmente privi di una legge morale, perché, eroi o dèi, sono loro stessi la misura etica che confessa nell’aspetto così poco aggraziato delle loro figure il senso della colpa che tormenta i tedeschi dell’epoca. Sono diventati tutt’uno con essa, hanno incorporato la colpa fin dal giorno in cui vennero concepiti; come figli che scontano i misfatti dei padri, hanno il volto ingenuo, naïf, selvatico e terribile di chi, nudo alla nascita, non ha nulla di cui vergognarsi nel mostrarsi per quello che è: ci avete caricato di una responsabilità enorme e disgustosa, soltanto la roccia e la terra di cui siamo fatti ci rende capaci di portarne il peso. Erano anni, quelli in cui Baselitz dava forma a queste opere, di grande ipocrisia. Un nuovo mondo stava nascendo, il mondo del benessere, con le sue icone pop, e la Germania fu l’unico Paese dove la pittura seppe opporsi alla supremazia dell’arte americana a livello commerciale e museale; Baselitz era uno di quei resistenti, e forse il senso della colpa lo ha tenuto per molto tempo alla larga da altre forme di degrado umano, quelle tipiche dei tempi di pace duratura, tempi dove le guerre si conducono con altri mezzi e ben più in profondità.

Roma, Palazzo delle Esposizioni

GEORG BASELITZ

Gli eroi

Fino al 18 giugno

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: