mercoledì 11 maggio 2016
Baricco: così porto a teatro la commedia umana
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«Non sei fregato   veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla». Le parole di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento risuonano come manifesto del teatro “affabulatorio” di Alessandro Baricco, che ventidue anni dopo il celebre monologo divenuto film con Giuseppe Tornatore, si cimenta per la prima volta con una commedia, diretto dal fido Gabriele Vacis. Dopo le lezioni di Totem («ancora andiamo in giro a farlo in segreto» confessa) e il Moby Dick teatrale, i due torinesi tornano a lavorare insieme per il Teatro Stabile del Veneto e lo Stabile di Torino con Smith & Wesson. Dopo il debutto veneziano, da stasera va in scena al Teatro Verdi di Padova una me- tafora sulla vita e sulle scelte che ne cambiano il corso, ambientata nel 1902 sulle cascate del Niagara, protagonisti Natalino Balasso e Fausto Russo Alesi. Baricco, la cui riservatezza è proporzionale ai milioni di copie vendute dei suoi romanzi, accetta di parlarne in esclusiva ad Avvenire.Baricco, come mai ha scelto di nuovo il primo Novecento americano?«Si tratta di una storia che avevo in testa da moltissimi anni. Ero affascinato sin dal ’98 dalle storie nate intorno alle cascate del Niagara, da quelle degli albori su coloro che le scoprirono, su come le percepirono all’inizio, su come le fecero diventare meta di turismo di massa, fino ai giorni nostri. Volevo farne qualcosa, un libro, un film. Alla fine tutto ciò è diventato teatro, perché volevo scrivere qualcosa per Natalino Balasso, che avevo visto in versione inedita nei Rusteghi di Goldoni, e per Gabriele Vacis».I protagonisti sono degli eroi squattrinati e falliti in cerca di una svolta. Quel 1902 non sembra così lontano dai giorni nostri...«Alla fine i movimenti degli umani sono sempre gli stessi, ci sono dei meccanismi mentali ben precisi. Anche Novecento in realtà è una storia che ancora adesso leggono i ragazzini che non sanno niente dei principi del secolo scorso, che sanno poco di transatlantici, ma che immediatamente capiscono che si parla di loro, perché il tema è molto preciso: si tratta del duello fra i confini e l’infinito. In Smith & Wesson c’è qualcosa di primitivo e comune a tutti, ovvero il desiderio e la paura di buttarsi. Mi sposo o non mi sposo, faccio figli o non faccio figli, tento la carriera d’attore o no: la gente sa che cosa è buttarsi in una scelta per cambiare la vita. Quindi ho lavorato su categorie molto comuni». Nell’era del digitale il teatro può sembrare anacronistico, invece esiste una tendenza a tornare ad ascoltare storie dal vivo. Come mai?«La gente, e in mezzo metto anche me, usa molto gli strumenti digitali, si avvantaggia delle nuove tecnologie, dopodiché ha un’enorme fame di esperienze, vere, vive, personali. Dove c’è un’intensità di corpi, di emozioni che condividono momenti forti, la gente accorre sicuramente. Il teatro è una di quelle situazioni. Credo che oggi la gente abbia una predilezione per un tipo di emozione che arriva da lavori di narrazione comeNovecento o Totem più che per la messa in scena di Pirandello. Comunque il teatro è un piacere molto bello legato, sostanzialmente, a una minoranza».Ora si fa tanto parlare di difendere la cultura in Italia. A che punto stiamo?«La difesa di una condivisione larga e disponibile a moltissime persone di esperienze forti, va difesa e va anche finanziata dalla collettività, assolutamente. Se questo si riduce, però, a difendere quello che è stato importante negli anni ’60, ’70 e ’80, è un suicidio. Bisogna capire l’importanza enorme di salvaguardare un ambiente di spettacolo, un contesto umanista, gli spazi di incontro, ma occorre anche avere il coraggio di proporre contenuti, modelli e autori nuovi. Le istituzioni culturali in generale, specie quelle pubbliche, sono piuttosto conservative anche quando sono innovative».Ma lei, ai giovani allievi della sua scuola per narratori, la Holden, cosa consiglia?«Sono loro che, nel giro di tre, quattro generazioni, inventeranno il nuovo panorama delle storie che noi consumeremo e dei riti che noi faremo. Inventeranno sicuramente delle cose nuove. Noi cerchiamo di passargli quello che del passato sarebbe idiota buttare, poi però bisogna fornirgli anche gli strumenti per cambiare il panorama, è un dovere che noi abbiamo».Come si può cambiare?«Le dico la cosa più semplice: occorre andare nelle scuole e in televisione. Non c’è niente da fare, bisogna passare da lì. Ci sono possibilità enormi di portare la cultura in tv, ma bisogna anche crederci, spendere dei soldi, investire, fare più programmi. In Italia, i talenti per farlo ci sono».Quando rivedremo lei in televisione?«Io? Faccio una vita complicata lavoro già troppo ( ride, ndr.). E poi non ci sono solo io in Italia. Quando mi proposero di andare su Raitre con L’amore è un dardoe Pickwick avevo 35 anni: il mondo è pieno di 35enni di talento che potrebbero fare esattamente quello che facevo io nel ’94, programmi diversi ma con lo stesso impatto. Allora mi hanno cercato, mi hanno dato fiducia, mi hanno fatto crescere. Avevano voglia di fare e di realizzare certi progetti».Alla vigilia del Salone del Libro di Torino, come vede evolversi invece l’editoria?«È un mondo che sta cambiando, in grande trasformazione non tanto nel senso dell’e-book cui non credo molto, ma per quello che la gente vuole leggere e per come legge. È un fenomeno molto complesso e interessante. È inutile star lì, bisogna innovare. Ma dovremmo aprire un altro ampio capitolo. Per ora penso al teatro».
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